Portare la povertà fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, scavalcando senza indugio le deprimenti polemiche sul reddito di cittadinanza

Nel 1995, esce nei cinema francesi La Haine di Matthieu Kassovitz, un film che racconta venti ore nella vita di tre ragazzi di una banlieu parigina, girato interamente in bianco e nero e con dialoghi infarciti di verlan, il gergo dei giovani di origine nord-africana. Il film vince il Premio per la miglior regia al Festival di Cannes. Nonostante il successo, La Haine fu accompagnato da numerose polemiche a causa della rappresentazione senza filtri della violenza urbana e della brutalità della polizia sui giovani di origine immigrata, tuttavia Alain Juppé, Primo ministro all’epoca, organizzò una proiezione speciale del film chiedendo agli agenti di polizia in servizio presso la sua residenza di partecipare e il Presidente Jacques Chirac inviò una lettera di apprezzamento al regista auspicando che gli insegnanti dei quartieri “difficili” facessero vedere il film ai propri studenti.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, Pierre Bourdieu assieme a un gruppo di colleghi scrive La misère du monde, un libro di quasi mille pagine che contiene per lo più interviste a persone che vivono una qualche forma di deprivazione materiale o esclusione sociale. Il volume, in Francia, vendette oltre ottantamila copie: un’enormità per un’opera tutt’altro che di facile lettura e pensata per un pubblico di addetti ai lavori. In effetti, l’équipe di ricercatori guidata dal sociologo francese si occupò solo di redigere delle introduzioni descrittive alle interviste, per il resto i colloqui furono riportati integralmente, senza omissioni. Inoltre, nel libro non ci sono dati statistici, né generalizzazioni, né stime sulla diffusione dei fenomeni trattati; solo i racconti delle persone, nessuna sintesi, nessuna perifrasi o estrapolazione.

Il film di Kassovitz e il libro di Bourdieu hanno due cose in comune. La prima è la ricezione ben al di fuori del proprio campo di riferimento: la società e la politica francese all’inizio degli anni ’90 percepivano l’emarginazione delle periferie, la povertà, la disoccupazione in termini di urgenze sociali alle quali trovare al più presto delle risposte. La seconda comunanza è nella capacità del dibattito pubblico francese di confrontarsi con posizioni complesse, ostiche e controverse, senza cercare scorciatoie e evitando le semplificazioni.

Trent’anni dopo, qui da noi in Italia, pare ci sia un gran bisogno di due cose: portare la povertà fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, scavalcando senza indugio le deprimenti polemiche sul reddito di cittadinanza e, seconda cosa, cominciare a trattare la questione in modo complesso, senza paura di fare i conti anche con gli aspetti ambigui del fenomeno. Nell’introduzione alla ricerca Bourdieu cita una frase del filosofo Baruch Spinoza: “Non deridere, non compiangere, non disprezzare, ma comprendere le azioni umane”. Ecco, oggi come non mai c’è bisogno di comprendere la povertà, senza deridere, disprezzare o commiserare chi la vive.

Benché La misère du monde sia una ricerca di oltre trent’anni fa, fornisce indicazioni ancora oggi importanti. Innanzitutto, leggendo le interviste si comprende subito che la povertà e la marginalità sono condizioni che dipendono una pluralità di fattori, solo in piccola parte sotto il controllo degli individui. In altre parole, viene confutata l’idea che esista una povertà “da basso sforzo”, ossia che le persone si ritrovino in una condizione di deprivazione socio-economica perché si impegnano poco o non lavorano abbastanza. Continuando a usare un lessico economico, la povertà si manifesta quando le persone si ritrovano in “circostanze avverse” che impediscono o limitano la loro capacità di autosostentamento. Come è noto a chi si occupa di medicina sociale essere poveri è spesso correlato con uno stato di salute psico-fisica precario e con stili di vita in termini di alimentazione e consumo di sostanze poco salubri. Tali condizioni possono essere aggravate da un’abitazione non adeguata.

Qualche tempo fa facendo il volontario in un centro di distribuzione aiuti alimentari ho conosciuto un ragazzo di trent’anni, fortemente obeso, viveva da solo in un piccolo appartamento pieno di umidità, dopo poco siamo finiti a parlare del lavoro:

Ma chi mi prende? Sono grasso, faccio fatica a salire le scale e a stare in piedi per tanto tempo. Secondo te, mi fanno lavorare in un supermercato o a fare le consegne? Senza reddito di cittadinanza e il pacco che prendo qui, morirei di fame. Ogni tanto mi chiedono di riparare un computer, su quello sono bravo, così mi faccio venti, trenta euro per arrotondare.

La condizione di Francesco, così si chiama il ragazzo, è dovuta all’intreccio tra diverse dimensioni: salute, abitazione, competenze originano una configurazione di povertà specifica per la quale il lavoro non è una soluzione, almeno nell’immediato. Sulla scorta di quest’esempio, è evidente che le misure esclusivamente economiche della povertà non riescono a cogliere la complessità delle condizioni individuali. Non è quindi un caso che, nel 2021 Eurostat abbia modificato la composizione dell’indice che misura la quota di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale (Arope) introducendo, oltre al reddito disponibile, anche tredici indicatori di deprivazione sociale e materiale e un indicatore di intensità lavorativa. Il 10 ottobre sono stati diffusi i risultati dell’indagine sulla povertà Eu-Silc e, in Italia, il 25,4% delle persone è in una situazione di Arope. Dietro questa etichetta ci sono storie come quella di Francesco che non meritano derisione, né compianto, né disprezzo, ma una comprensione profonda della condizione di vita delle persone per individuare il meccanismo da supportare per favorire la fuoriuscita dalla povertà

Senza derisione, né compianto né disprezzo https://pop.acli.it/images/povert.jpg Redazione POP.ACLI