Una delle tradizioni politiche del nostro Paese, dalla Liberazione in poi, è sempre stata quella di un’alta partecipazione al voto.

Del resto, dopo vent’anni di dittatura, la rialfabetizzazione politica del Paese, con una delle Costituzioni più avanzate del Continente europeo, passava attraverso il ruolo educativo dei partiti politici, e anche se non tutti sceglievano di militare in questi partiti, certamente sentivano la necessità di esprimere il loro consenso o il loro dissenso tramite il voto.

Si sapeva, certo, che in altri Paesi, con una storia democratica più lunga e strutturata della nostra il tasso di partecipazione al voto era più basso, ma i commentatori politici dicevano che ciò dipendeva dalla maggiore fiducia che i cittadini di quei Paesi riponevano nelle loro istituzioni, fiducia che invece da noi era mediata dai partiti politici: da qui il legame diretto fra fiducia nelle istituzioni democratiche, fiducia nei partiti e alta partecipazione al voto.

Tale rapporto andò logorandosi nel tempo, precipitando verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso di fronte alla constatazione della crescente autoreferenzialità dei partiti cui faceva da contrasto la loro presenza pervasiva in tutti i gangli della vita sociale ed economica, mentre sempre più si addensavano le accuse di corruzione, malaffare e contiguità con la criminalità organizzata.

Le inchieste di Tangentopoli e le stragi di mafia del 1992 e del 1993 crearono le condizioni psicologiche per il ripudio di un sistema considerato ormai marcio ed irriformabile, e del resto il passaggio da un sistema rigidamente proporzionale ad uno di carattere maggioritario, sull’onda di un movimento referendario di cui le ACLI furono parte integrante, sembrava creare le condizioni per una maggiore responsabilizzazione del rapporto fra elettori ed eletti come dimostrarono le nuove leggi per l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle Regioni.

E tuttavia questo non è bastato a costruire un nuovo rapporto fra i cittadini e le istituzioni, e se durante la cosiddetta Prima Repubblica poteva essere vera la formula “istituzioni deboli, partiti forti”, con i partiti a fare da garanti per la democrazia, ora la debolezza ed il discredito dei partiti, il protrarsi indefinito di una transizione iniziata trent’anni fa, il crescente protagonismo dei singoli, con leadership bruciate nel giro di pochi anni, hanno creato un clima di disillusione che, oltre che sui singoli esponenti politici e sui loro partiti, si è riversato sulle istituzioni nel loro complesso.

Quanto alle forze politiche di impianto populista emerse nell’ultimo decennio, se la loro presenza ha potuto essere un elemento di critica, se non di sfogo, verso una classe politica percepita come assente e lontana, nel momento hanno dovuto misurarsi con l’attività di governo si sono dovute rendere conto della complessità dei problemi e della presenza di vincoli interni ed esterni che rendevano impossibili le loro più ardite promesse, al punto tale di doverne rinnegare molte ed annacquare altre, suscitando un evidente ed inevitabile moto di ripudio da parte di chi in tali promesse aveva creduto.

E tuttavia, l’affermarsi del populismo non è un rifiuto della politica: paradossalmente è l’espressione di una domanda di politica come strumento di risoluzione delle molte questioni sociali affioranti che la globalizzazione ha portato con sé, che la crisi finanziaria del 2007 (non governata in alcun modo nel nostro Paese) ha aggravato, la pandemia ha acuito e la guerra rischia di rendere incandescente. A fronte di ciò si chiede alla politica di trovare soluzioni semplici e veloci a problemi complessi ed intrattabili che andrebbero affrontati con cautela, realismo e pazienza.

La crisi della democrazia deriva, in ultima analisi, dall’incapacità del sistema politico di garantire, insieme alle libertà civili (di voto, di pensiero, di parola …)  quelle promesse di sicurezza sociale ed economica che furono possibili in passato e ora sono diventate limitate e precarie, con promesse di un futuro peggiore per le generazioni future.

Certamente non è un buon esempio di politica l’insieme di circostanze che ha condotto alla caduta del Governo Draghi e allo scioglimento anticipato delle Camere: lo si potrebbe anzi definire come la sommatoria di due populismi che, per ragioni opposte ma alla fine convergenti, hanno avuto l’effetto di anteporre i propri calcoli di parte rispetto ai problemi generali del Paese. Certo, in democrazia il voto dei cittadini non è mai un fatto in sé negativo, ma temo che la campagna elettorale che ci aspetta sarà condotta in termini tali da allontanare ulteriormente i cittadini dalla politica.

In questo senso la doppia sfida della politica non populista (ricomprendendo nella sfera della politica anche le forze della società civile) è quella da un lato di trovare tali risposte evitando che esse vengano ricercate da un’opinione pubblica esasperata fra i fautori di soluzioni autoritarie e antidemocratiche, e dall’altro quello di riconferire alla politica quella consapevolezza del proprio limite, quella “mitezza” di cui parlava Aldo Moro.

È possibile farlo? Sì, se si investe su di una formazione seria e sulle buone prassi, valorizzando una politica popolare (in antitesi al populismo) ed è esattamente questo che vogliono fare le ACLI.

Voto di fiducia… https://pop.acli.it/images/Democrazia_Manfredonia.jpg Redazione POP.ACLI