Se la nostra intelligenza è un unicum in cui esperienza, emozioni e sentimenti sono la parte preponderante, allora gli algoritmi non sono comparabili con l'intelligenza umana...

Noi temerari sulle macchine pensanti, a cui siamo passati senza per questo liberarci delle macchine pesanti, somigliamo a navigatori senza mappa e senza criteri di orientamento che però continuano indefessamente e ininterrottamente a navigare. Che poi quelle macchine siano effettivamente pensanti è cosa che rimane da comprendere. Di certo le macchine digitali sono calcolanti oltre ogni nostra capacità. E battono in maniera definitiva ogni campione del mondo di scacchi o di go, tanto per fare esempi ormai superati dai tempi e dalle evoluzioni tecnologiche. Come faccia un sistema cervello-mente a produrre qualcosa che supera le capacità stesse del produttore rimane a sua volta una domanda che attende risposta.

Fatto sta che in ragione di queste e altre domande restiamo frastornati. Se però non vogliamo ancora una volta fare la fine narrata tra gli altri da Mary Shelley a proposito del suo Frankenstein o quella di Prometeo, per arretrare fino al mito, peraltro molto eloquente, dobbiamo cambiare punto di vista e domanda. Dal restare attoniti e interroganti di fronte ai nostri artefatti abbiamo bisogno di volgere lo sguardo a noi stessi e a come reagiamo di fronte alla tecnica e alle tecnologie digitali. La parola chiave è reificazione.

Trasformiamo in cosa esterna a noi qualcosa che è interna a noi e che noi stessi creiamo. La cosa non è nuova se Albio Tibullo, già nel primo secolo si era posto il problema in modo chiaro: “Chi fu il primo che inventò le spaventose armi? Da quel momento furono stragi, guerre. Si aprì la via più breve alla crudele morte. Il misero, tuttavia, non ne ha colpa. Siamo noi che usiamo malamente quel che egli ci diede per difenderci dalle feroci belve.” (An nihil ille miser meruit. Nos ad mala nostra vertimus, in saevas quod dedit ille feras) [Tibullo, Condanna della guerra ed elogio della pace I, 10, vv. 1-24].

Ci può aiutare una breve riflessione sull’inconscio digitale:

“L’inconscio digitale inteso psicoanaliticamente non è in Internet, nei Social Media o nelle più o meno sicure ed affidabili banche dati delle Big Tech ma è dentro di noi ed opera secondo le stesse modalità del nostro tradizionale inconscio, inducendoci cioè a proiettare sul digitale, senza che ce ne rendiamo conto, le nostre emozioni più riposte, i nostri pensieri più inaccessibili e i nostri più inconfessabili desideri.” Così scrive Giuliano Castigliego in Inconscio digitale e sostenibilità. Per una psicopatologia della vita quotidiana digitale, Digital Transformation Institute, Roma 2023.

Quale sia l’utilità di un’analisi e di una definizione dell’inconscio digitale è il tema che attraversa tutto il libro: “Il concetto di “inconscio digitale” è, a mio avviso, un utile strumento interpretativo per comprendere meglio cosa avviene nei nostri scambi in Internet e sui social, per non cadere nella trappola moralistica della vergogna, dello svergognamento e della gogna mediatica ma anche per evitare di rimanere intrappolati in una maschera narcisistica appariscente e affascinante che però tradisce la nostra vera identità.”

Conoscere per governare, insomma, e cercare di rendere sostenibile una rivoluzione tecnologica che, come sempre, ma questa volta in maniera più intensa e pervasiva, attiva il gap tra tecnica e valori, tra quel che come umani produciamo, e la nostra capacità di utilizzarlo per noi e non contro di noi.

Dove sta allora la buona notizia? Ha molte facce e conviene considerarne qualcuna, brevemente in questa sede.

Disponiamo di un cervello neuroplastico le cui potenzialità di apprendimento e di espansione sono decisamente superiori all’uso che correntemente e attualmente ne facciamo.

L’intelligenza umana non può essere univocamente ridotta all’aspetto computazionale, ma è anche espressione dell’esperienza. Se la nostra intelligenza è un unicum in cui esperienza, emozioni e sentimenti sono la parte preponderante, allora gli algoritmi non sono comparabili con l'intelligenza umana. Il che non significa che tra cinque, dieci, vent’anni, questi algoritmi possano diventare autocoscienti ed eventualmente, in uno scenario distopico, possano soggiogare l’intelligenza umana a cui siamo tanto legati e che è più ricca di aspetti computazionali.

Se è vero che nella maggior parte dei casi siamo orientati a consegnarci alla forza dell’abitudine e a fare scelte conformiste, è anche vero che siamo una specie creativa, capace di comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori disponibili del mondo. Questa è una risorsa che utilizziamo poco e male e possiamo valorizzarla per governare a vantaggio di una vivibilità sostenibile le tecnologie digitali.

Il cervello cambia sempre, ed è per questo che è vivo: è per sua natura plastico, come abbiamo detto. Le macchine sono già empatiche, simulano il modo con cui dialoghiamo, potrebbero perfino sviluppare un'autocoscienza. Dobbiamo studiare, capirne di più, ma sapere che abbiamo una sola possibilità: investire per governare le tecnologie digitali, educare al loro uso, aumentare le nostre potenzialità, e uscire dalla trappola del pensiero: digitale sì/digitale no, subendo così gli eventi, entrando finalmente nella prospettiva: digitale come.

Pensare digitale: il cervello umano https://pop.acli.it/images/bambino_intelligenza_AI.jpg Redazione POP.ACLI