Alcune riflessioni a partire dall’accoglienza estiva dei ragazzi ucraini...
Questa estate c’è stata la terza edizione dell’accoglienza estiva di ragazzi ucraini. Da quando la guerra è iniziata le Caritas Ucraine hanno chiesto disponibilità alle diverse Caritas europee per organizzare momenti in cui ragazzi di territori in guerra potessero vivere un momento di serenità e di “normalità”. Caritas italiana ha da subito chiesto la collaborazione delle Diocesi e di alcune associazioni laicali. Come Acli da subito abbiamo raccolto l’invito e ci siamo mobilitati.
L’esperienza (coordinata, come ogni anno, dalle Acli di Milano assieme alle Acli Nazionali) si è svolta il primo anno nell’alto bresciano, il secondo in Trentino-Alto Adige e quest’anno si è realizzata a Frabosa, in provincia di Cuneo, con il coinvolgimento attivo delle Acli locali e di tante associazioni e realtà del territorio.
Papa Francesco nell’ultimo incontro ci ha parlato di stile aclista come stile popolare. “Si tratta non solo di essere vicini alla gente, ma di essere e sentirsi parte del popolo”. “Nel contesto di una società frammentata e di una cultura individualista abbiamo un grande bisogno di luoghi in cui le persone possano sperimentare questo senso di appartenenza creativo e dinamico, che aiuta a passare dall’io al noi, a elaborare insieme progetti di bene comune e a trovare le vie ed i modi per realizzarli”. L’accoglienza dei ragazzi ucraini è stata un modo di sperimentarci in questo stile popolare e ci sembra che lo sia stato essenzialmente in tre modi.
Il primo è la modalità di coinvolgimento dei giovani animatori. Per i circa 25 ragazzi italiani che si sono alternati nelle due settimane è stata una esperienza altamente educativa. Ma su cosa si è basata la loro chiamata? Non è stata richiesta l’appartenenza alle Acli come precondizione, né è stato chiesto di essere recettori di una proposta educativa pensata da altri. Ai giovani e giovanissimi (tra i 14 e i 25 anni) è stata posta una richiesta di aiuto. È stata fatta loro la proposta di mettere a servizio di altri le proprie competenze e la propria stessa identità di giovani italiani. La risposta è stata generosa e sopra ogni aspettativa. I giovani non sono passivi e indifferenti. Sono pieni di contraddizioni, ma hanno molte più capacità di quel che pensiamo e hanno bisogno e desiderio di sentirsi utili. Preziosa in questo senso è stata anche la presenza di giovani di seconda generazione (con una appartenenza nazionale, culturale e linguistica plurale, creativa e dinamica) e di giovani con esperienza migratoria (che hanno messo in circolo l’accoglienza ricevuta). I giovani provenienti dall’Italia si sono attivati, hanno predisposto le attività, hanno preparato e gestito tutto quello che ha riguardato l’animazione, con l’obiettivo di offrire uno spazio “tra giovani”, in cui al centro non ci fosse il loro essere adolescenti con altri adolescenti, anche per i ragazzi ucraini, e non la loro esperienza di guerra.
Il secondo aspetto è legato al fare pratico condiviso. Essere circa 100 persone, con picchi di 120, in una casa in autogestione, vuol dire fare la spesa, cucinare, pulire, apparecchiare, sparecchiare. In questo caso i volontari italiani sono stati soprattutto adulti, venuti apposta da altre province o resisi disponibili in loco. Il fare pratico volontario è diventato uno spazio di attivazione e di incontro. “Posso dare una mano?” è stata la frase di chi si affacciava, italiano ed ucraino, magari fatta leggere da un cellulare con il traduttore di Google fino all’ultimo giorno in cui, come ormai da tradizione, le educatrici ucraine hanno preso possesso della cucina per 12 ore ed hanno preparato e servito meravigliosi e squisiti piatti tipici per tutti.
Il terzo aspetto è legato alla nostra idea di pace, che nella concretezza dell’incontro con l’altro ha dovuto scavare per andare più a fondo. I ragazzi ucraini cantavano con orgoglio l’inno nazionale, sventolavano la bandiera ucraina in ogni luogo e nei disegni e racconti emergeva un’ammirazione assoluta per chi stava combattendo a difesa del loro Paese. Il termine Pace, nei loro discorsi, non si declinava se non assieme al termine “Gloria (Slava)” e “Vittoria”. Agli occhi, soprattutto adulti, di noi italiani, cattolici, impegnati, questo è apparso inizialmente un po’ spiazzante. D’altro canto, anche le nostre bandiere della pace e alcune nostre domande devono essere sembrate ugualmente spiazzanti a loro.
“Popolo è il cittadino convocato, assieme ad altri”. Ma “non è l’idea che convoca, non è neppure la parola. Ciò che convoca è sempre e solo la realtà”. Sono le parole del testo “Noi come cittadini, noi come popolo” di un Bergoglio del 2010. La realtà è superiore all’idea e la realtà dei ragazzi che hanno partecipato è realtà di sfollati, di video quotidiani da genitori al fronte, di sirene notturne, di scuola solo online da 3 anni…
Stefano Zamagni, in un recente incontro a Rieti spiegava che se nei decenni passati lo scenario si è diviso nel doppio movimento libertà/giustizia su cui si è giocato il rapporto destra/sinistra, a partire dagli anni ‘70 il movimento emergente è stato un terzo: il riconoscimento. I filosofi politici contemporanei utilizzano sempre più il termine riconoscimento per ricostruire le basi delle rivendicazioni dei nostri tempi: popoli indigeni riguardo alla terra, il lavoro di cura delle donne, il matrimonio omossessuale, il velo islamico… e anche chi lotta per difendere il proprio territorio e la propria nazionale da un aggressore… Il bisogno fondamentale, prima ancora della sicurezza e delle risorse materiali, è essere riconosciuti.
Nel frattempo, anche gli studi psicologici (a partire dalla scoperta dei neuroni specchio) hanno evidenziato l’intersoggettività e il riconoscimento reciproco come l’asse portante della relazione tra due soggetti e della identità stessa di ciascuno (per cui, il concetto di identità è talmente dinamico e influenzato dalle relazioni che potrebbe essere legittimamente chiamato “diventità” come dice Ugo Morelli). Soltanto se siamo riconosciuti, visti ed accettati, siamo in grado di accettare noi stessi e di entrare a far parte di un noi, assieme agli altri e quindi di essere popolo.
Provando a rileggere l’esperienza estiva, possiamo dire che abbiamo provato a costruire un contesto di riconoscimento che tenesse assieme la dimensione personale (costruzione di relazioni personali tra giovani, riconoscimento di giovani ucraini come giovani europei, simili, vicini, con legami possibili) e quella di popolo (opportunità di vacanza in Italia offerta a giovani ucraini in quanto ucraini, in quanto giovani di un paese sotto attacco…).
L’ultima sera, durante i ringraziamenti ed i saluti, in mezzo a premiazioni, canti, lacrime e risate, la canzone che ha unificato tutte le voci (italiane ed ucraine) è stata “Bella ciao!”. La versione italiana, ancora più che quella creata ad hoc recentemente in Ucraina (come in moltissimi altri posti del mondo). È stato un momento intenso, che ha aiutato a riconoscerci reciprocamente. Attraverso il nostro cantare con passione una canzone che per loro descriveva perfettamente la situazione ucraina, loro sono riusciti a sentirci realmente vicini. Il loro cantare quella che noi sentivamo come “la nostra canzone” ci ha aiutato a comprendere meglio il significato che il presente ha per loro.
La nostra identità collettiva attuale, il nostro convivere, la nostra Repubblica, si basa su una scelta di pace, ma anche sulla comune esperienza della Resistenza. Si basa sull’idea dei partigiani come giovani generosi. Affinare via via la sensibilità e la capacità (personale e comunitaria) di nonviolenza non vuol dire non riconoscere la necessità (prima di tutto morale) di difendersi e di rivendicare la propria difesa. Soprattutto non vuol dire chiedere alle vittime di sposare (per decisione altrui) la scelta nonviolenta o una eventuale scelta di resa. Vuol dire porsi al fianco delle vittime, costruire relazioni e riconoscersi reciprocamente per come si è. Convinti che da queste relazioni e da questo riconoscimento, a volte bellissimo, a volte faticoso, nascerà la comune capacità di essere generativi nel liberare energie e attivare processi per trovare strade sempre migliori e sempre più efficaci per arrivare alla pace.