Oggi la realtà sociale appare ancora connotata da disuguaglianze di genere, anche in ambito salariale. Una ricerca del Coordinamento Donne delle Acli

Il Coordinamento Donne e l’Area Lavoro delle Acli Nazionali hanno promosso una ricerca sulla disparità salariale di genere, i cui esiti sono stati presentati in un convegno tenutosi a Roma il 19 ottobre. Si tratta di un’iniziativa importante, dal momento che l’attenzione del nostro Paese per le differenze tra uomini e donne, che si traducono in diseguaglianze, spesso latita. Eppure, l’appartenenza sessuale conta per leggere i fenomeni sociali, e considerare congiuntamente donne e uomini risponde alla convinzione che la condizione delle prime sia leggibile solo alla luce della condizione dei secondi e viceversa. Il genere rappresenta una categoria interpretativa fondamentale, che apre prospettive diverse e inedite sul complesso dei dati che si raccolgono e permette di sviluppare il dibattito al fine di stabilire obiettivi e priorità da affrontare per modificare la diseguale situazione di partenza.

Oggi la realtà sociale appare ancora connotata da disuguaglianze di genere. Malgrado i progressi compiuti, i ruoli riservati agli uomini e alle donne nella vita politica, economica e sociale del Paese sono definiti in maniera fortemente asimmetrica a danno del genere femminile. Tale disparità è facile da cogliere nel mondo del lavoro. Al suo interno, tra le molte penalizzazioni che riguardano le donne una delle più odiose risulta l’asimmetria retributiva, che continua ad esistere malgrado tutele costituzionali e internazionali impediscano la disparità di trattamento. Quando si parla di gender pay gap o di divario retributivo di genere si intende dire che le donne sono pagate in media meno degli uomini, anche quando svolgono occupazioni simili. Tali differenze retributive possono essere spiegate dalle diverse caratteristiche dell’offerta femminile rispetto a quella maschile, o dalla discriminazione. Quest’ultima esiste quando ad un gruppo di persone è corrisposta una retribuzione inferiore a parità di produttività potenziale, dedotta dalle diverse caratteristiche dei lavoratori.

Il fenomeno ha portata globale e dimensioni considerevoli. Per l’Italia l’Eurostat calcola un dato piuttosto basso (4,2%), ma se si adottano altre forme di calcolo, che correggono l’indicatore, la misura del divario retributivo cresce, superando il 40% nel settore privato. Una serie di disuguaglianze soggiace a tale divario: fattori quali la segregazione orizzontale e verticale, il tasso di occupazione, il numero delle ore lavorate incidono sulla disparità salariale ma raramente rientrano nel calcolo, come pure le numerose interruzioni e le altre penalizzazioni cui le donne vanno incontro nel mercato del lavoro, specie per i compiti di cura cui fanno fronte. Le conseguenze sono evidenti: a parte una minore indipendenza economica, la disparità retributiva comporta una maggiore esposizione delle donne alla povertà, specie in età matura.

La ricerca promossa dalle Acli ha approfondito il tema attraverso un percorso di indagine che si è snodato lungo due piste parallele: in primis sono stati esaminati i dati messi a disposizione dai servizi dell’associazione, Caf e Patronato. Grazie a queste banche dati è stato possibile constatare che nelle fasce di reddito più basse – che possono essere considerate come altrettante soglie di povertà – sono maggiormente presenti le donne. La fragilità reddituale del genere femminile persiste anche se le donne hanno un lavoro retribuito e sia che abbiano lavorato continuativamente durante l’anno o in maniera discontinua. Si può, quindi, supporre che il lavoro dipendente (cui i dati fanno riferimento) da solo non sia sufficiente a riscattare la condizione di svantaggio femminile. Nella situazione peggiore si trovano le giovani donne, che al crescere del reddito annuo complessivo divengono percentualmente “invisibili”: più della metà delle dichiaranti (50,5%) non supera i 15.000 euro, tre su quattro tra le lavoratrici discontinue (+8,4% rispetto ai coetanei maschi).

Inoltre, è stato possibile osservare che le domande presentate per diverse categorie di sostegni al reddito vedono tra i proponenti una massiccia componente femminile. In particolare, più del 60% delle domande di Naspi proviene da donne lavoratrici. La tendenza riguarda anche le donne straniere e si rafforza nel tempo. Al contrario, le dimissioni volontarie rappresentano un fenomeno prevalentemente maschile (62,1%), mentre le vertenze, pur assumendo un andamento meno divaricante tra i generi, sono avviate in maggioranza da donne (55%). Dai dati si desume che queste ultime abbiano un percorso lavorativo più accidentato e più conflittuale anche alla fine del rapporto.

Parallelamente all’esame dei dati di Caf e Patronato è stata realizzata un’indagine sul campo, che ha coinvolto una platea di più di mille individui. La survey ha fornito indicazioni chiare: le donne si collocano numerose (60,4%) nelle fasce di reddito da lavoro inferiori (fino a 1.500 euro mensili netti), contro il 27,8% degli uomini. Ma tale indicazione non è di per sé sufficiente a stabilire che ci sia un effettivo differenziale retributivo. Perciò si è proceduto a verificare se sussiste un divario nei redditi percepiti anche a parità di caratteristiche personali e di mansioni svolte. A tale scopo sono stati definiti profili omogenei di lavoratori e lavoratrici integrando progressivamente aspetti quali la forma contrattuale, l’orario di lavoro, il settore di impiego, il campo di attività e le mansioni svolte. Ne è risultato, ad esempio, che tra gli/le impiegati/e nel campo dei servizi il differenziale di genere è di dieci punti percentuali nel settore pubblico, di circa 28 punti nel settore privato e addirittura di 36 punti percentuali tra i/le lavoratori/trici non standard.

A fronte di questo, la forbice tra i generi in termini di soddisfazione lavorativa è piuttosto ampia: le intervistate sono insoddisfatte del proprio reddito da lavoro e, quanto all’accesso ai livelli superiori, oltre la metà ha dichiarato di avere solo un lavoro e non una carriera, contro il 36,4% degli uomini. L’insoddisfazione delle lavoratrici è giustificata dalla scarsa qualità del lavoro con la quale si confrontano, che è, poi, un altro modo con cui guardare alle disparità di reddito. Per darne conto è stato costruito un indice di qualità del lavoro, grazie al quale si è stabilito che più di un terzo delle donne del campione si colloca sul livello medio-basso, contro il 15,9% degli uomini. Introducendo in questo quadro i redditi, si nota come a livelli bassi di retribuzione corrisponda una peggiore qualità del lavoro e viceversa, specialmente nel sotto-campione femminile, che presenta uno scarto di 33,5 punti percentuali rispetto al sotto-gruppo maschile in termini di bassa qualità.

In conclusione, l’indagine ha confermato che le donne mostrano una maggiore fragilità reddituale e del rapporto di lavoro. Inoltre, ha rivelato l’esistenza di un differenziale nei redditi da lavoro non spiegato dai profili e dalle caratteristiche differenti di lavoratori/trici. Infine, si è osservato che la retribuzione è un elemento importante ma solo uno di quelli costitutivi della qualità del lavoro, legato agli altri che contribuisce a determinare e da cui è determinato. In definitiva, il percorso di ricerca ha confermato la bontà della scelta di leggere i fenomeni sociali in ottica di genere, per renderne meno lacunosa e imprecisa l’interpretazione.

Lavorare dis/pari: un percorso di ricerca sulla disparità di genere nel mondo del lavoro https://pop.acli.it/images/disparit_generi.jpg Redazione POP.ACLI