Riflessioni e spunti a partire dall’incontro per rilanciare l’azione sociale delle Acli e l’animazione delle comunità che si è svolto a Roma, con circa 50 territori Acli, il 19 e 20 gennaio scorso
Toqueville diceva “La maggior parte degli europei vede nell’associarsi un’arma da guerra che si prepara frettolosamente per sperimentarsi subito sul campo di battaglia. Un’associazione è un esercito, vi si parla per contarsi e animarsi e poi si marcia contro il nemico”. Descritta così sembra una modalità datata, ma è la militanza, che ci ha caratterizzato per molto tempo. Però, in uno schema generale in cui non esistono più parti complessive definite, la gente ha meno desiderio e meno disponibilità a lasciarsi “arruolare” in una guerra generale e non solo per una resistenza alla metafora utilizzata.
Non si tratta di rinunciare alla politicità dell’associarsi, quanto semmai di dare una lettura ancora più ampia della politicità. “L’associarsi attiene al governare, nel suo senso più alto. Rendere il mondo intellegibile, fornire degli strumenti di analisi e interpretazione che permettono ai cittadini di orientarsi e agire con efficacia” (diceva Rosanvallon).
L’attivismo civico, le pratiche di cittadinanza attiva per il bene comune, sono le modalità diffuse a partire dagli anni 2000. Ma il mondo corre veloce e dal 2000 sono già passati più di 20 anni. I nuovi ruoli previsti dalla riforma, per ora più abbozzati che realizzati a dire il vero, affidano alla società civile non solo un ruolo esecutivo, ma anche un ruolo protagonista nella definizione delle politiche sociali. Questo però, inevitabilmente, dà luogo a nuova progressiva istituzionalizzazione e contrattualizzazione della collaborazione pubblico privato sociale. I vari istituti della amministrazione condivisa generano nuove opportunità, ma sostengono anche meccanismi, tra soggetti di società civile, che sono più competitivi che cooperativi. D’altra parte, sostengono una tendenza alla collaborazione, piuttosto che alla conflittualità con le istituzioni pubbliche. E come convive con tutto questo una associazione che vuole restare anche movimento, con tutto il necessario portato di capacità di mobilitazione, protesta e pressione?
Inoltre, i tavoli di coprogettazione, i patti di collaborazione, il partenariato i progetti, il bilancio partecipativo e i tavoli tematici, sono tutti strumenti di governance locale, non nazionale. Il nazionale quindi, non è più, per definizione e per natura, il luogo naturale di una sintesi e di una regia che è anche sostenuta da distribuzione di fondi. Quale nuovo ruolo spetta, quindi, a questa dimensione, nell’era della complessità, della velocità, della specificità?
Cresce la distanza tra associazionismo basato prevalentemente su militanza e cittadinanza attiva, e volontariato occasionale… ma cresce anche quello tra piccole formazioni, radicate, significative su scala micro e grandi organizzazioni, professionalizzate, con una logica sempre più imprenditoriale. Noi in questo, come ci collochiamo? L’ambizione è (o sembra essere) tenere assieme tutto. Logica imprenditoriale e dimensione economica, da un lato e radicamento locale, volontariato e motivazione (se non militanza), dall’altro. Aggregazione, sistema di welfare, politica e promozione culturale. Il rischio è non essere bene nulla. Ma la pista (forse) è costruire un nostro modello specifico di essere. Come?
Noi ci stupiamo e a volte anche scandalizziamo un po’, della nostra diversità interna. Di come, nella stessa associazione, in diversi posti, si interpreta l’agire associativo. Ma in realtà le ricerche dicono che, sempre di più, oggi, “Una stessa associazione può agire con stili associativi diversi. Come lobby, come nodo di un movimento, come gruppo di rappresentanza di interessi, come parte del sistema di welfare locale” (Biorcio/Vitali) a seconda del contesto e del momento.
Forse oggi le persone danno meno rilevanza all’appartenenza organizzativa. Ma questo non vuole dire necessariamente maggiore resistenza all’associarsi. A volte, specie per i più giovani, può voler dire anche essere più disponibili ad associarsi, ma solo se ne vale la pena. Forse c’è maggiore sensibilità a determinati temi, quindi maggiore richiesta di verifica di coerenza. Forse oggi per associarsi c’è bisogno di avere anche un ritorno personale. Non necessariamente economico, ma di crescita, di soddisfazione, di senso e persino di felicità. Forse c’è disponibilità a portare la propria associazione, il proprio gruppo, la propria esperienza, dentro qualcosa di grande, se questo qualcosa di grande non mi annulla, ma anzi, preserva e valorizza la mia specificità.
Tutti questi forse interrogano il nostro essere associazione, il nostro essere rete associativa ed il nostro essere quel mondo diffuso che una volta chiamavamo Sistema Acli. Quello che stiamo provando a fare è stare su un duplice asse:
- da un lato promuovere l’azione sociale delle Acli e cercare di renderla sempre più animazione di comunità (cioè sempre più capace di mobilitare partecipazione),
- dall’altro stiamo provando ad utilizzare un approccio di animazione di comunità anche all’interno delle Acli stesse, come modalità di sostenere un processo di rigenerazione associativa.