Se davvero pensavamo di essere messi male in quanto a libertà di stampa, il Word Press Freedom Index, l’indice annuale che valuta la libertà di stampa in 180 paesi del mondo, qualche settimana fa ci ha detto che stiamo messi anche peggio...

Se davvero pensavamo di essere messi male in quanto a libertà di stampa, il Word Press Freedom Index, l’indice annuale che valuta la libertà di stampa in 180 paesi del mondo, qualche settimana fa ci ha detto che stiamo messi anche peggio: dal 41esimo posto che, più o meno stabilmente, abbiamo occupato negli ultimi anni, l’Italia scende al 58esimo posto. Ci superano praticamente tutti i paesi europei “sviluppati” e anche qualche paese africano dove la situazione politica non è certo tranquilla, come la Costa D’avorio (37°) e il Burkina Faso (41°).

La classifica si basa su alcune interviste anonime a cui rispondono gli stessi giornalisti che hanno ammesso come nel nostro paese sia un’abitudine quella di autocensurarsi, per non andare contro l’editore (o, peggio, per compiacerlo) o per evitare ritorsioni di ogni tipo, partendo da quelle politiche fino ad arrivare ai gruppi di potere. Un altro grave bavaglio, che riguarda soprattutto i piccoli gruppi editori e quelli che in qualche modo provano ad essere realmente indipendenti, è rappresentato dall’arretratezza della nostra legge sulla stampa.

Oggi, per silenziare un giornalista o per fargli capire che deve cambiare l’oggetto dell’inchiesta, basta querelarlo, chiedendo un risarcimento sproporzionato a cui non potrebbero far fronte neanche i grandi gruppi. Non è un caso che da più di 20 anni si stia provando a porre rimedio a questo malcostume tutto italiano con una legge sulla “lite temeraria”, una norma cioè pensata per fermare cause pretestuose (e minacce di cause) prevedendo appunto di chiedere a chi ha intentato una causa (che il giudice ha giudicato temeraria), un risarcimento danni che sia proporzionale alla somma pretestuosamente richiesta.

In Commissione Giustizia del Senato, dopo una discussione sulla percentuale da richiedere (se il 25% o il 50%), si era raggiunto un accordo tra i partiti dell’allora maggioranza gialloverde, poi qualcosa è cambiato, sono arrivati i primi stop e, tra ondate delta e omicron, seconda dose e dose booster, e qualche veto incrociato di chi ha l’abitudine a querelare facilmente, tutto si è arenato. Va anche detto che la norma è stata discussa e prosegue nello stesso iter di quella sulla “diffamazione a mezzo stampa” che, nell’intenzione del legislatore, è a difesa dei cittadini ma entrambe ora rimangono su un binario morto. Chi avrà ora il coraggio di calendarizzarle?

Certo, avere una legge su lite temeraria e diffamazione a mezzo stampa non significherebbe che la qualità dell’informazione cambi da un giorno all’altro, ma sicuramente queste norme restituirebbero un minimo di libertà a chi lavora sul campo, partendo ad esempio dal lavoro giornalistico che viene svolto a livello locale perché, come ha denunciato l’AgCom qualche mese fa, le cose anche lì non vanno affatto bene. È acclarato che esistono alcuni gruppi imprenditoriali che, nonostante la crisi decennale del settore, ancora investono nel settore dell’editoria e dei media con l’obiettivo, neanche troppo nascosto, di creare un vero e proprio monopolio a livello territoriale.

La pandemia potrebbe aver addirittura acuito questo problema ma già prima del marzo 2020 esisteva, in cinque regioni italiane, un gruppo editoriale unico con un audience maggiore della Rai regionale. A livello nazionale invece l’impressione è che i conflitti d’interesse dei gruppi industriali che controllano i mass media più importanti, siano irrisolvibili. La comunicazione sulla guerra in Ucraina ne è un esempio lampante, se solo pensiamo al gruppo Gedi (La Repubblica, La Stampa, Radio Capital, Radio DeeJay e molti altri) con le sue 24 testate giornalistiche e le 23 testate digitali, un vero e proprio impero che ha un editore “misto”, visto che il business del Presidente John Elkann è trasversale, dalla Ferrari, alla Juventus passando per alcuni marchi dell’abbigliamento di lusso. Queste società fanno capo alla holding olandese Exor, di cui lo stesso Elkann è il ceo, e che ha tra le controllate la Iveco Defence Vehicle, capofila dell’industria nazionale degli armamenti terrestri, e la Rolls Royce che deve il 28% del suo fatturato ai proventi del settore della difesa (in tutto il mondo).

Non stupisce quella che è stata una vera e propria campagna, da parte di tutte le testate giornalistiche del gruppo, contro il movimento pacifista e contro chi ha criticato la scelta del Governo di mandare armi in Ucraina. Ma la dignità non significa anche assicurare e garantire ai cittadini un’informazione libera e indipendente – come ha detto il Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento? Troppo facile applaudire, bisogna intervenire affinché l’informazione sia libera e si allontani sempre più dall’autoreferenzialità a cui è ridotta, inutile (e ipocrita) altrimenti tuonare contro chi va a cercare informazioni e notizie nel maremagnum del web, dove sarà pur vero che ci sono pericolose fake news in agguato ma c’è anche il rischio di trovare isole felici dove le notizie arrivano senza filtri o interpretazioni.

La libera informazione? Ormai si trova nel web https://pop.acli.it/images/LIBERT_DI_STAMPA_R.jpg Redazione POP.ACLI