A 30 anni dalla strage di mafia che spezzò la vita di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, l’esercizio della memoria richiede un rinnovato impegno culturale e di ricerca civile e politico, perché non si cristallizzi in un semplice ricordo.

Il tempo è passato. Per quanto gli sforzi per combattere le mafie e il malaffare abbiano riscosso risultati positivi, l’avanzata del crimine nel nostro Paese sembra proprio non volersi fermare. I dati resi noti dalla Polizia criminale parlano chiaro. Dal punto di vista dei crimini mafiosi, nel 2021, sono state ben 194 le segnalazioni inviate alle prefetture dal Gruppo centrale interforze. Si tratta soprattutto del frutto delle verifiche realizzate nel settore grandi eventi e ricostruzione post sisma: 1000 approfondimenti e 29.000 interrogazioni alle banche dati delle forze di polizia.

Nel 2021, sono stati arrestati ben 1.343 latitanti, di cui 38 appartenenti a organizzazioni mafiose.  Infine, secondo gli ultimi aggiornamenti di Libera, sono 1055 le vittime di mafia accertate, prima del 1961 erano 165.

Di fronte all’avanzamento del potere malavitoso, più persuasivo e insidioso che nel passato, occorre riflettere sul fatto che la mafia non è solo una questione di tipo criminale legata alla sicurezza, ma è una seria minaccia per la democrazia e lo sviluppo sociale ed economico del Paese.

La lotta alle mafie non può, dunque, ridursi a un’operazione investigativa e repressiva. Le mafie, infatti, attecchiscono dove lo stato arretra, dove cresce la povertà di ogni genere e il welfare sociale non funziona, dove la pubblica amministrazione è troppo condizionata dall’economia, dove i salari sono troppo bassi. Le mafie proliferano nelle società diseguali e più in generale dove crescono le ingiustizie.

Nel 2020, il quartile più ricco della popolazione italiana possedeva più dei 2/3 della ricchezza nazionale. Mentre, da un punto di vista patrimoniale, il 10% dei più ricchi possedeva ricchezze 6 volte superiori a quelle del 50% dei più poveri (Oxfam 2021). La pandemia ha addirittura peggiorato tale squilibrio: i miliardari italiani sono passati da 36 a 49, durante questo particolare e drammatico periodo (Forbes 2022). La povertà assoluta, nonostante il Reddito di Cittadinanza, morde ancora: nel 2021 erano 1,9 milioni le famiglie in queste condizioni (7,5% del totale), mentre gli individui erano 5,6 milioni (9,4% del totale). Infine, secondo il Gruppo di lavoro costituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel 2022, l’11,8% dei lavoratori italiani erano poveri, contro una media europea di 9,2%.

A peggiorare il quadro, c’è il fatto che il sistema di welfare non sempre riesce a raggiungere tutte le persone in difficoltà, ad esempio: il 31,4% dei potenziali percettori del Reddito di Cittadinanza non ha avuto accesso alla misura (Istat 2022).

È in questi contesti sociali ed economici deboli che il cosiddetto “welfare sostitutivo mafioso” si insinua, approfittando delle fragilità dei cittadini, troppo spesso costretti ad accettare lavori indegni e mal pagati e/o a chiedere sostegno al “capobastone” di turno.  

In questo senso la politica ha un ruolo fondamentale. Nella sua principale missione di orientare la comunità verso il benessere, non esaurisce il suo ruolo nella pur necessaria denuncia di atti illegali commessi dai mafiosi, ma chiede costantemente di applicare, migliorare e innovare gli strumenti normativi capaci di contrastare sul nascere la criminalità organizzata. Un’opportunità potrebbe essere fornita dalla riforma del Terzo Settore (Art. 55 della riforma Terzo Settore). Ad oggi, purtroppo, la co-progettazione e, soprattutto, la co-programmazione sono poco utilizzate dalla Pubblica Amministrazione. Gli Enti di Terzo Settore, ad esempio, non hanno un ruolo definito nella Governance del PNRR. La presenza di enti della società civile potrebbe ridurre le possibilità di infiltrazioni mafiose e, più in generale, della criminalità organizzata. Da questo punto di vista, potrebbe essere accolta la proposta di Libera di “Promuovere un’azione di monitoraggio civico capillare del PNRR e delle opere a forte impatto locale, in coerenza con il diritto di “controllo diffuso” dell’operato della Pubblica amministrazione previsto dalla L 190/2012”

Questo tuttavia non basterebbe. Combattere le mafie in un Paese in cui a seguito delle stragi di Via D’Amelio e Capaci è cresciuta una diffusa coscienza di antimafia sociale, vuol dire anche impegnarsi per la formazione dei dipendenti della Pubblica amministrazione nel dotarsi di strumenti di prevenzione e contrasto alla criminalità organizzata per diffondere buone prassi di trasparenza amministrativa; continuare il lavoro di formazione nelle scuole per educare i nostri ragazzi alla legalità a partire dalla riflessione sulle stragi e dall’eroismo dei giudici ammazzati dalla mafia; agevolare l’attribuzione ad organizzazioni affidabili dei beni confiscati alle mafie per il loro riutilizzo a scopi sociali. Cittadini, istituzioni, organizzazioni sociali e politica, in una fase così delicata della storia, sono chiamati a dare il loro contributo. Le mafie si combattono insieme ognuno con le proprie responsabilità e nel proprio ruolo. Borsellino amava dire che “Un giorno questa terra sarà bellissima”.  Il miglior modo per ricordare il suo sacrificio è lottare perché quel giorno di un’Italia libera dalle mafie giunga davvero.

Lotta alle mafie oltre la repressione https://pop.acli.it/images/LEGALITA.jpg Redazione POP.ACLI