Brenna ci ricorda qualcosa che sta nella profondità del Movimento...

Ringrazio Emiliano ed Erica per avermi coinvolto in questo ricordo collettivo di Geo Brenna, che ci consente di onorare un grande aclista ma anche di pensare a ciò che siamo.

Altri, assai meglio di quanto potrei fare io, parleranno della sua personalità, del tratto umano, delle idee, della leadership che ha saputo esercitare nel movimento, in questo modo influendo anche su una più ampia area cattolica oltre che sulla sinistra politica e sindacale del Paese.

Proverò, per parte mia, a riflettere sul contesto in cui operarono Geo Brenna e le Acli, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, e sul segno che è stato impresso nella storia del movimento. Un segno che, certo, il tempo ha modificato ma non credo che sia possibile cancellare.

La Chiesa allora era attraversata e sferzata dal vento conciliare. La Repubblica percorreva il tratto finale della sua prima fase, quel tratto in cui si toccò il punto di maggiore espansione nelle sue basi democratiche e nella conquista dei diritti e del welfare, ma al tempo stesso si giunse a una soglia di maturazione, un limite non superabile per gli equilibri economici e geopolitici del tempo, e da ciò scaturì una crisi profonda di sistema.

Oggi possiamo dirlo, godendo di una visione maggiormente prospettica. E’ proprio sul finire degli anni Settanta che avviene la svolta: un cambio di paradigma politico, culturale, economico, che è risultato ben più profondo e pervasivo di quello poi indicato – all’inizio degli anni Novanta - come il discrimine tra le cosiddette prima e seconda Repubblica.

E, se l’uccisione di Aldo Moro è l’evento simbolico del cambio d’epoca (almeno nel nostro Paese), se la sostanza del cambiamento intervenuto è dunque più sociale che istituzionale, allora anche le vicende delle Acli di quel tempo acquistano un valore più grande, più di quanto solitamente non viene riconosciuto.  

Le Acli furono protagoniste nella stagione delle lotte e del rinnovamento culturale, delle grandi speranze e delle passioni civili. Condivisero slanci, esperienze, anche errori e illusioni, portarono al Paese e alla Chiesa una loro originalità e una buona dose di coraggio. Sperimentarono sul campo cosa volesse dire vivere lo spirito del Concilio.

Ciò che le Acli seppero fare, dire, pensare in quei passaggi costituisce uno dei tratti più forti della loro storia. Tuttora riconosciuto come uno dei più caratterizzanti.

Eppure la memoria di quegli anni, nel vissuto interno alle Acli, è legata più al trauma conseguente che alla creatività allora espressa. Se ne possono comprendere le ragioni: lo shock della deplorazione di Paolo VI, il mutamento di status nella Chiesa vissuto come una punizione, gli esiti tormentati e a lungo conflittuali della dichiarata fine del collateralismo, le controversie che seguirono la radicale (a dire il vero, un po’ ideologica) “scelta di classe”, l’ipotesi socialista offerta ed esposta con qualche ingenuità al tiro di svariati plotoni di esecuzione, peraltro seguita dal pesante fallimento del Mpl.

Volendo, ci si potrebbe inoltrare nel gioco dei se. Chiedendoci, ad esempio, se sarebbero accadute esattamente le stesse cose con Geo Brenna presidente dopo Labor e con Gabaglio magari suo vicepresidente. Ma il gioco sarebbe ozioso, inutile. A distanza di tempo, ciò che appare più visibile è proprio la sostanziale consonanza in quel gruppo dirigente, con una condivisione del senso di marcia che rafforza il segno impresso nelle Acli, e dalle Acli nel cattolicesimo sociale.  

Anche per questo non è possibile chiudere dentro una parentesi quanto avvenuto. Non è possibile perché nella vicenda storica e politica delle Acli le idee, il coraggio, la progettualità, la speranza di quella stagione hanno formato un’eredità cospicua, e questa è divenuta – da subito - la base di partenza della stagione successiva, quella della presidenza di Domenico Rosati, che pure ha progressivamente attenuato le asperità e i contrasti con la Gerarchia, con la Dc (divenuta morotea e zaccagniniana), con il resto del mondo cattolico (in cui cominciava a prendere forma la “ricomposizione” patrocinata da padre Sorge), senza tuttavia rinunciare ad alcuni principi cardine delle Acli maturati alla fine degli anni Sessanta: l’autonomia, la collocazione nel movimento operaio, la laicità della politica nell’accezione maritainiana (espressione più volte usata da Brenna), il pluralismo delle opzioni partitiche, la democrazia interna, l’impegno per l’unità sindacale, l’idea di riforme sociali da affidare non soltanto a scelte istituzionali ma anche all’iniziativa e alla politicità dei movimenti della società civile.

Certo, è innegabile che le Acli, mentre reinterpretavano le novità della stagione in cui Geo Brenna è stato uno dei maggiori protagonisti, al tempo stesso si premuravano di velare, filtrare, nascondere la simbologia e la narrazione propria degli anni del congresso di Torino e dello storico convegno di Vallombrosa. E la diaspora di alcuni dei protagonisti – tra cui Geo Brenna - ha favorito che quel velo fosse steso.

L’occultamento, la rimozione aveva ragioni diplomatiche evidenti, ma la sostanza – includo anche gli errori e i radicalismi – era invece entrata nelle vene del movimento, e costituiva una parte della sua identità.

L’ipotesi socialista di Vallombrosa venne abbandonata senza difese, accettandone di fatto la condanna, eppure in quell’utopico disegno che muoveva dall’opzione anti-capitalista e non risparmiava radicali dissensi al comunismo realizzato e critiche alle socialdemocrazie europee; che immaginava una riorganizzazione della sinistra senza partito-guida ma con una pluralità di apporti sociali che avrebbero dovuto rendere più partecipata, più libera, più democratica quella società che si voleva più egualitaria; ecco, in quel disegno utopico c’erano germi, semi che neppure la successiva gelata liberista e neoliberista è riuscita ad annientare.

Voglio pensare che siano frutto di quei semi anche l’impegno di oggi per la pace, che sfida apertamente la realpolitik; la lotta contro le povertà, a fronte di una società sempre più diseguale; il sostegno convinto al magistero di Francesco, alla sua radicalità evangelica, pure in una Chiesa dove non mancano pigrizie e resistenze.

Allora, indubbiamente, c’era un’idea di classe che non ha retto allo sviluppo della società italiana. Non a caso la stagione di Rosati comincia con un convegno di studi il cui perno sono le analisi di Sylos Labini sulla differenziazione delle classi sociali. Ma oggi, in una società dove si propaga il sonnambulismo (citazione dell’ultimo rapporto Censis), vorrei rimarcare le idealità e il coraggio della scelta di campo di allora: scelta di campo che è rimasta a lungo e – penso - resterà ancora nell’immaginario collettivo aclista come misura di autenticità, come condizione e traguardo dell’impegno sociale.

Geo Brenna ha dedicato tanto tempo e tanta passione all’attività formativa. La formazione è stata la sua vocazione. Nella formazione portava la sua visione del mondo e i suoi progetti di cambiamento. Mi è capitato di rileggere l’intervento che Geo Brenna fece al convegno di Riccione del ’76, quando una sessione venne dedicata proprio alla ricostruzione storica della vicenda aclista. Un intervento molto dettagliato sulla stagione che visse da protagonista, dal congresso in cui finì in minoranza insieme a Labor fino alle conclusioni non pacifiche della commissione Acli-Conferenza episcopale – di cui Brenna fece parte con Gabaglio e Maria Fortunato – che doveva chiarire ai vescovi italiani gli orientamenti aclisti dopo Torino e Vallombrosa, e doveva convincerli della coerenza con le indicazioni conciliari e con l’Octagesima adveniens e che invece si concluse con la rottura tra la Gerarchia e quel gruppo dirigente.

Ebbene, in quell’intervento Brenna giunse a una conclusione che oggi si può pacificamente condividere: la ragione ultima, irriducibile del contrasto con la Chiesa italiana non era tanto la visione classista, la deviazione ideologica di tipo socialista, l’insistenza sulla programmazione e la politica di piano (che ebbe in Brenna il principale artefice in casa Acli), non era neppure la dialettica aperta con altri movimenti cattolici giudicati integralisti, quanto la rottura – avvenuta sul campo - dell’unità politica nella Democrazia cristiana. Questo era il capo del filo. La Chiesa non voleva spezzare l’unità politica mentre le Acli l’avevano collocata in un passato non più riproducibile.

Il pluralismo politico nelle scelte dei credenti da allora non fu più negato nelle Acli. E il ritorno della sinistra aclista in maggioranza e nel gruppo dirigente nazionale ha contribuito ulteriormente a traghettare contenuti, e idee, e valori degli anni – diciamo così – più turbolenti.

E’ sempre bene – rimeditando sulla storia aclista - non perdere di vista le vicende della politica nazionale. Lo strappo delle Acli avvenne dopo la crisi del primo centrosinistra, quando la delusione sopravanzò le speranze, quando operai e studenti occupavano le piazze immaginando un mondo migliore. Con una Dc frastornata, arroccata nel governo nonostante gli equilibri sempre più precari. Si ricordi il discorso di Aldo Moro al consiglio nazionale della Dc nel ’68: «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d'ombra, condizioni d'insufficiente dignità e d'insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l'ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze (...), sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità».

La ricomposizione, la ricucitura avvenne invece dopo il fallimento del governo di centrodestra con i liberali, dopo il referendum sul divorzio, quando nella Dc si affermò la politica del confronto e della solidarietà nazionale. Le sinistre – per la prima volta compreso il Pci – vennero chiamate a una “quasi” responsabilità di governo, di fronte alle molteplici crisi della società italiana: crisi economica, energetica, innalzamento del debito, terrorismo, rischio di instabilità delle istituzioni. E tutto ciò indubbiamente favorì l’unità anche dentro le Acli.

Le Acli, il sindacato, i movimenti della società civile furono essenziali alla tenuta del quadro democratico, alla difesa dei valori costituzionali. L’articolazione pluralista delle Acli divenne così indubbiamente un valore aggiunto. Per le forze – sindacato compreso – che sostenevano la solidarietà nazionale (pur con finalità diversi). Un valore aggiunto per la Chiesa e il movimento cattolico in Italia, che padre Sorge guidò verso una provvisoria riunificazione senza tuttavia negare – in linea di principio – l’articolazione pluralista delle opzioni politiche. Un miracolo che solo un gesuita poteva compiere. 

Credo, insomma, che sia giusto riconsiderare continuità e discontinuità della vicenda delle Acli attraverso griglie di analisi più articolate di quelle usate nel vivo delle polemiche post-Vallombrosa.

Penso anche che il tempo della rimozione o, se si vuole, della timidezza nel rivendicare la matrice fortemente aclista di quella stagione possa considerarsi alle nostre spalle. Anche perché, dopo Rosati, altri presidenti, a cominciare da Giovanni Bianchi e Franco Passuello, hanno ricordato anche fisicamente, con le loro storie personali, che di quella storia erano partecipi e continuatori.

Nessuno nelle Acli può considerare la stagione di Geo Brenna come un tempo chiuso, circoscritto, sigillato dagli eventi successivi.

Se sul piano della rottura dell’unità politica della Dc, le Acli di Labor, di Gabaglio, di Brenna hanno pagato il prezzo di essere apripista; se sul piano dell’entusiasmo conciliare hanno dovuto patire le conseguenze di una frenata che ha riguardato tutta la Chiesa; se sul piano progettuale e ideale hanno dovuto scontare la sconfitta sia dell’orizzonte socialista sia della prospettiva di classe; il grosso del patrimonio di cultura, di idealità, di vita cristiana nel vivo dei conflitti sociali, di esperienza formativa di quegli anni ha composto un patrimonio che per le Acli è stato vitale, è rimasto vitale, e ne sono convinto: vale anche per oggi.

Proprio il passaggio in cui si è sancita la sconfitta di quel gruppo dirigente ha in realtà portato alle Acli, alla loro identità, alla loro storia, qualcosa di irrinunciabile, che le definisce nella società italiana. L’essere un pezzo della Chiesa in uscita (per usare un’espressione cara al Papa), l’essere autonomi (nel senso di laici responsabili delle proprie scelte) e per questo democratici al proprio interno, l’essere interpreti di un bisogno di giustizia che non può mai essere disgiunto dalle idee di libertà, l’essere coinvolti nell’azione – e talvolta nella lotta – per affermare il diritto eguale, il sentirsi difensori e attuatori della Costituzione, a partire dai suoi presupposti personalistici, a partire anche dall’opera necessaria e collettiva di rimozione degli ostacoli indicati dall’art. 3.

Nel movimento in cui Brenna ebbe responsabilità primarie nel campo degli studi e della formazione, nelle Acli di Emilio Gabaglio in cui Brenna è stato vicepresidente, nella corrente guidata da Brenna all’opposizione di Marino Carboni, c’era un’ambizione che veniva da lontano e che però, a ben guardare, è l’anima di tutto il movimento. Un’ambizione, sia chiaro, che non era solo della sinistra interna. Vittorio Pozzar aveva la stessa ambizione, e penso che per questo rifiutò la scissione del Mcl e contribuì in modo decisivo a sconfiggerla.

L’ambizione che le Acli potessero, come movimento della società, come movimento capace di una propria politicità, dire qualcosa di importante per il Paese. Incidere. Influire nella cultura, negli equilibri sociali. Portare idee nuove. Animare il confronto tra i cattolici per fare in modo che essi stessi scongiurino il rischio di conservazione, di opportunismo, di occupazione del potere.

Tante cose sono cambiate da allora. Il Muro non c’è più, il mondo è diventato più piccolo, la tecnologia corre a velocità sempre maggiore, le comunicazioni sono diventate struttura portante della modernità, la secolarizzazione ha mutato il contesto in cui si esprime la fede stessa. Ma la figura di Brenna ci ricorda qualcosa che sta nella profondità del movimento: l’ambizione delle Acli. Ecco, questa ambizione è la cosa più importante. E’ l’ossigeno per pensare, immaginare, agire.

La politica – da qualunque soggetto venga interpretata – ha due dimensioni ineliminabili. Anche se a volte in conflitto. La concretezza necessaria per aiutare chi ha di meno. Gli ideali che devono essere sempre capaci di andare al di là di ciò che appare oggi possibile.

Sarebbe bello se oggi dicessimo che proveremo ancora a tenerle insieme.

 

 N. Speciale - Geo Brenna

Geo Brenna. Una vita per le ACLI tra impegno e formazione https://pop.acli.it/images/Sardo_commem_Geo_Brenna.jpg Redazione POP.ACLI