Avviato nel luglio 1993, si conclude definitivamente nel gennaio 1994 lo scioglimento della Democrazia Cristiana, il partito che per cinquant'anni aveva governato l'Italia…

È passato abbastanza inosservato il trentesimo anniversario dello scioglimento della Democrazia Cristiana, come se la vicenda storica del partito che dominò indiscutibilmente i primi cinquant’anni della storia repubblicana, e la cui vicenda si intrecciò inevitabilmente con quella della comunità ecclesiale vista la qualificazione cristiana del partito stesso.

Apparentemente è come se la coscienza del Paese avesse rimosso un’intera stagione, che di fatto è ormai consegnata alla memoria diretta di chi ha più di cinquant’anni e che le generazioni seguenti conoscono tramite una pubblicistica ed una storiografia non sempre equilibrate e credibili.

E tuttavia questa rimozione, oltre ad essere in se stessa malsana perché l’oblio della storia non è mai una buon viatico per la coscienza di una Nazione e di un popolo, lascia aperta la questione di una verifica del ruolo storico del partito democratico cristiano, del suo rapporto simbiotico con larghi settori della società italiana, della sua capacità adattiva all’evoluzione della società stessa. E. ovviamente, del suo legame con la storia della Chiesa in Italia.

Ciò vale a maggior ragione per le ACLI, che sono nate da un atto di volontà congiunta non solo di Achille Grandi e degli altri sindacalisti cristiani per creare un punto di riferimento e di raccolta all’interno della CGIL unitaria a maggioranza marxista, ma anche e per certi versi soprattutto, di De Gasperi e di mons. Montini che volevano indirizzare e coordinare la corrente del cattolicesimo sociale all’interno di un percorso di ordine politico che permettesse di non collocare la risposta alla sfida socialcomunista unicamente in una prospettiva di tradizionale conservatorismo.

E se nei primi anni di vita, almeno fino alla rottura dell’unità sindacale e poi fino alla fine dell’era degasperiana, la posizione delle ACLI rispetto alla Democrazia Cristiana rimane indistinguibile da quella di tutte le altre organizzazioni cattoliche collaterali al partito (assai meno, si potrebbe dire, dei Comitati civici di Gedda), progressivamente, venute meno le loro funzioni sindacali, esse presero coscienza della loro forza come gruppo di pressione, attraverso il massiccio inserimento di personale formato dalle ACLI nei Consigli comunali ed in Parlamento, come pure negli organismi di partito.

Non è da dimenticare che, all’atto delle dimissioni di Ferdinando Storchi dalla Presidenza nazionale nel 1954, molti premettero affinché tale incarico venisse assunto da Mariano Rumor, allora Vicepresidente nazionale e nello stesso tempo deputato e componente del Governo, il quale però indicò il nome del suo conterraneo Dino Penazzato, lui pure deputato.

E il partito riconobbe tale funzione cercando, talvolta con convinzione talaltra meno, di coinvolgere le ACLI all’interno del dibattito politico, riconoscendo addirittura al Presidente nazionale un seggio permanente nel Consiglio nazionale del Partito (incarico cui, ad esempio, Livio Labor adempì con zelo, almeno finché non crebbe in lui la sfiducia verso la riformabilità del partito).

La fase matura del collateralismo coincide con l’inizio della sua crisi, ossia con la lunga preparazione del centrosinistra, la sua realizzazione con i tre Governi Moro della IV legislatura e la presa d’atto della difficoltà di portare avanti riforme strutturali che sanassero le storture di fondo della società italiana. Vi fu evidentemente un eccesso di impazienza rispetto ai tempi propri della politica, ma la percezione della presenza di settori di conservatorismo e di privilegio nella società italiana che facevano riferimento a ben precisi gruppi interni alla DC si affermò sempre di più all’interno delle ACLI, al punto tale che al X Congresso nazionale, che si svolse a Roma nell’autunno del 1966, Rumor, allora Segretario della DC, venne pesantemente contestato dalla platea (che invece applaudì Moro).

Il fatto è che nuove correnti si stavano muovendo nella società e nella Chiesa: le ACLI, ad esempio, avevano seguito con attenzione il dibattito conciliare, cogliendo, forse con qualche imprecisione ed esuberanza, la necessità di un aggiornamento di linguaggi e di idee, mentre la DC sembrava totalmente estraniata rispetto a tale contesto.

Nello stesso tempo, l’analisi della società dei consumi e della presenza di sacche diffuse di povertà e di disagio sociale si legava ad una critica globale del capitalismo e dell’imperialismo di cui anche negli ambienti cattolici si denunciava l’irriformabilità, e la DC appariva come il partito garante della conservazione o al massimo, portatrice di un pallido riformismo che non intaccava in nulla la dinamica interna del sistema capitalista.

Di fatto, pur avendo ormai un atteggiamento complessivamente critico, alle elezioni politiche del 1968 le ACLI suggerirono ancora di votare per la DC eleggendo nelle sue file una ventina di parlamentari, ma erano già maturi i tempi per la dichiarazione della fine del collateralismo che venne sancito dall’XI Congresso nazionale svoltosi a Torino nel giugno 1969.  Significativamente pochi giorni dopo, nella sua relazione di apertura al Congresso democristiano l’allora Segretario nazionale Flaminio Piccoli polemizzò duramente con le ACLI e iniziò larvatamente a chiedere l’intervento nei loro confronti della Gerarchia ecclesiastica.

Le vicende del triennio 1969/ 1972 sono note, e sono state recentemente ricordate nella dolorosa occasione della scomparsa di Geo Brenna, che fu uno dei protagonisti di quella stagione : lungo gli anni Settanta le ACLI si trovarono a dover costantemente ridefinire il loro profilo ecclesiale e politico, in un contesto in cui al voto prevalente degli aclisti per la DC si accompagnava la libera militanza nei partiti di sinistra, trovando un’occasione di sintesi nella politica di unità nazionale  e nel nuovo corso politico della DC con la segreteria di Zaccagnini sotto la regia di Aldo Moro (e il rapimento Moro fu particolarmente vissuto dalle ACLI come una tragedia epocale).

Gli anni Ottanta furono quelli del pentapartito, della lunga gestione demitiana della DC che preludeva ad un estremo tentativo di rinnovamento che passasse anche attraverso il ripensamento della dinamica istituzionale, ma che venne frenato dalle resistenze interne ad un partito che, non potendosi concepire all’opposizione, oscillava fra l’avvertita necessità di ripensare se stesso in corsa e il compiacimento della propria centralità ed inamovibilità collegata alla lunga prassi di governo che era ormai diventata gestione del potere per il potere.

Proprio le ACLI, ed in particolare Giovanni Bianchi, cercarono di suggerire una strada alternativa nel recupero del pensiero sturziano, nella concezione dello Stato come garante dello sviluppo delle autonomie locali e funzionali, del recupero e della promozione delle autonomie locali, della riforma del sistema elettorale come base per la reciproca legittimazione di forze politiche che potevano alternarsi al governo senza che questo compromettesse la dialettica democratica.

Ma ormai era troppo tardi: il crollo delle dittature comuniste dell’Europa orientale, che di primo acchito parve il trionfo di chi al comunismo si era sempre opposto, fu come il segnale dell’orami acclarata inutilità di un sistema imperniato su di una forza politica che sembrava aver progressivamente ridotto la propria specificità propositiva all’anticomunismo, e della quale, in assenza del pericolo comunista, non vi era più bisogno. In questo senso, le vicende di Tangentopoli si limitarono a creare il clima psicologico per l’accelerazione di un processo che era già in atto.

Il tentativo di Martinazzoli, cui parteciparono Bianchi e molti altri aclisti, di rivitalizzare la proposta politica del popolarismo fallì in parte perché molti non vi  credettero in parte perché arrivava fuori tempo massimo rispetto ad una società in rapida secolarizzazione e alla nuova dialettica bipolare in cui senza alcuna verecondia persino Silvio Berlusconi riteneva di potersi accreditare come epigono di Sturzo (e non è un caso che il trentennale della fine della DC coincida con il trentennale della nascita di Forza Italia).

Resta il fatto che la scomparsa della DC ha lasciato il cattolicesimo italiano sospeso fra un senso di lutto ed uno di liberazione, ed in mezzo ad essi è mancata l’occasione di un ripensamento complessivo sia dell’esperienza pregressa sia della possibilità di cammini futuri che fossero espressione non di un’imposizione dall’alto – come nel periodo ruiniano- ma di un cammino comune fra diverse soggettività che si interrogavano sui cambiamenti in atto nella società, nell’economia e nelle istituzioni, magari nascondendosi dietro una visione pietrificata dei “valori non negoziabili” per evitare di prendere posizione su tutto il resto.

In questo senso, l’attuale pluralismo delle appartenenze politiche può essere l’occasione per il ripensamento di una convergenza su idee e progetti di cambiamento, purché sia fatta, come ricordava recentemente il card. Zuppi, con “intelligenza e capacità” che non sono un dono innato ma si esercitano nella quotidianità delle scelte.

Democrazia Cristiana: una storia (anche) nostra https://pop.acli.it/images/Democrazia-cristiana-R.jpg Redazione POP.ACLI