Livio Labor è stato certamente un presidente fra i più carismatici della storia delle Acli. La sua fede granitica, il suo rigore personale, l’orgoglio aclista, e anche una certa severità, lo rendevano leader autorevole, forte, e direi pure temuto...

Attraversò, da dirigente del movimento due decenni burrascosi. E non si dica che gli anni Cinquanta furono una sorta di parentesi storica, in cui avvenne poco di significativo. Tutt’altro. Gli anni Cinquanta sono stati gli anni della ricostruzione, del radicamento della democrazia nel tempo della Guerra fredda, dell’avviamento di quel processo che aveva il patto costituzionale come carburante e i grandi partiti popolari come vettori nelle istituzioni. Intanto nella società che si trasformava, tra i conflitti redistributivi e le domande di nuovi diritti, sbocciavano nuove soggettività, nuove culture, nuove speranze.

Sono gli anni Cinquanta il contesto della seconda fondazione delle Acli. Le Acli di Achille Grandi erano nate come la corrente cristiana del sindacato unitario, e la rottura sindacale del ’48 ne aveva travolto l’identità originaria, mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza. Sul fronte sindacale la Cisl aveva soppiantato le Acli e non pochi erano convinti – nella Dc e nella Chiesa italiana – che non ci fosse spazio per due realtà autonome, tanto più se coltivavano entrambe l’ambizione di influenzare la società e le scelte politiche.

Furono Dino Penazzato per un verso e Giovanni Battista Montini per un altro, i principali ricostruttori di una “ragione” aclista. Una ragione diversa dalla prima fondazione. Il futuro Paolo VI immaginava per le Acli il ruolo di “cellule dell’apostolato cristiano moderno” tra i lavoratori e per questo favorì una nuova investitura, vincendo più di qualche scetticismo. La Cisl, del resto, aveva compiuto una scelta di rigorosa aconfessionalità e la presenza al proprio interno di componenti laiche non democristiane rendeva impossibile una attività formativa esplicitamente orientata all’apostolato e alla dottrina sociale della Chiesa.

Penazzato incamerò il nuovo sostegno ecclesiale e si mise al lavoro per allargare le maglie delle funzioni assegnate alle Acli. Ben presto coniò la formula: “movimento sociale dei lavoratori cristiani”. Livio Labor si affermò proprio sulla scia di Penazzato come il dirigente di maggior spicco della nuova generazione, quella degli aclisti non parlamentari, e sostenne con energia il progressivo ampliamento del campo di impegno civile e politico, in nome della dignità dei lavoratori. Non solo cellule di apostolato, ma appunto movimento nella società.

C’è un “diritto delle Acli – scrisse Labor in quegli anni – come movimento di formazione culturale, spirituale e religiosa dei lavoratori ad essere componenti del Movimento Operaio (scritto con la maiuscola)”. “Le Acli hanno il diritto di esser tali non perché siano una istituzione, come il sindacato, o come i partiti, ma perché si fondano sulla volontà, sul dinamismo dei lavoratori. Esse sono un movimento, una iniziativa di solidarietà tra e dei lavoratori, così come sono state le prime mutue, come sono stati i sindacati. E’ la coscienza del far da sé, la coscienza dell’unione e della solidarietà operaia che è fondamento del Movimento Operaio (sempre con la maiuscola)…”

Gli anni Cinquanta sono gli anni del centrismo. Ma è il decennio che getta i semi di quello che sarà il centrosinistra e che, nei fatti, determinerà il senso di marcia dei primi trent’anni della storia della Repubblica. Il centrosinistra non era un esito scontato. Nonostante la lettera della Costituzione e la forza modellatrice dei suoi principi. Non mancavano le forze – interne ed esterne - che immaginavano, se non proprio l’andamento inverso, verso destra, quantomeno un consolidamento del centrismo, con l’emarginazione della sinistra storica.

Anche nella Chiesa il “partito romano” faceva sentire la propria voce. Ne sa qualcosa Alcide De Gasperi, che concluse la sua parabola politica dopo uno scontro addirittura con Pio XII sulla cosiddetta “operazione Sturzo”, l’estensione a destra della coalizione per le elezioni comunali di Roma del ’52. Le Acli attraversarono questa temperie, collocandosi con Penazzato nella sinistra sociale democristiana e contrastando le tentazioni destrorse, ma sempre con un’attenzione prevalente sui temi sociali, sui diritti e i salari dei lavoratori, sulla necessità di un intervento pubblico che orientasse il mercato e gli investimenti, sul contrasto alla povertà, sulla dignità delle famiglie operaie, dei giovani operai, sulle loro concrete condizioni di lavoro.

La grande manifestazione di Roma per il 1° maggio del 1955 fu indubbiamente uno dei punti più alti della vicenda aclista. Labor era a fianco di Penazzato. Anche il successo del 1° maggio venne usato per allargare ulteriormente lo spazio vitale delle Acli, e dunque la loro responsabilità politica: per Penazzato le Acli erano ormai il “movimento operaio cristiano”. Non soltanto leva di cultura e formazione, neppure soltanto strumento di autorganizzazione dei lavoratori, ma anche forza di pressione su governi, partiti e sull’insieme della società. Con proprie idee e proprie proposte.

Nela Chiesa non mancarono timori per l’esorbitare delle Acli dal mandato “montiniano”. Ma fu evitato il conflitto esplicito in un tempo in cui la Dc era comunque un presidio intangibile di unità. Fu evitato anche lo scontro sulla ribadita fedeltà delle Acli alla “classe” lavoratrice: per i conservatori quelle parole erano il segno di un cedimento al classismo, e dunque di un grave “deviazionismo ideologico”.

Labor è sempre stato un sostenitore tenace dell’autonomia delle Acli. Con un linguaggio più moderno potremmo dire che intravedeva nelle Acli una importante soggettività sociale, dunque anche politica, e su questa scommetteva per farne vettore di emancipazione e di giustizia. Fino alla metà degli anni Sessanta, l’unità politica dei cattolici non è mai stata messa davvero in discussione nelle Acli, ma proprio quell’autonomia – alla vigilia di un cambiamento epocale di costumi, di condizione sociale, di cultura – è divenuta un propulsore atomico di libertà politica e di coraggio ideale per tutto il movimento.

Penazzato lascia le Acli dopo il famoso braccio di ferro sull’incompatibilità tra mandato parlamentare e funzioni dirigenti interne. La Gerarchia (per fare nomi: Tardini e Siri) non apprezzò affatto il ruolo cruciale del presidente delle Acli nella costituzione di Rinnovamento democratico, corrente unificata delle sinistre democristiane. Se le Acli si identificano con una corrente – per di più di sinistra – la Chiesa non può investire su di esse attribuendo loro compiti di apostolato…

La Chiesa è irremovibile con Penazzato, che cerca di salvare la presidenza con una deroga al principio dell’incompatibilità, accettata ob torto collo. Labor è il principale antagonista di Penazzato dentro il movimento, ma i suoi argomenti, la sua piattaforma, non hanno nulla di quell’obiezione conservatrice, che pure innestò il grande ricambio al vertice delle Acli.

La bandiera di Labor è proprio l’autonomia del movimento. Aveva cominciato a parlare di incompatibilità a metà degli anni Cinquanta, quando la proposta era molto minoritaria. L’autonomia per lui non era soltanto un ideale domestico. Era una chiave di interpretazione dell’evoluzione democratica del Paese. Solo una democrazia caratterizzata dalla pluralità, da una larga partecipazione poteva ricomporsi in unità nel lavoro. Unità non ideologicamente imposta, non forzata da un’egemonia di partito, ma raggiungibile proprio grazie alla convergenza di forze molteplici, non solo partitiche.

Labor perde il congresso di Milano del ’59. Penazzato riesce a farsi rieleggere presidente nel gennaio 1960. Ma ad aprile è costretto a dimettersi definitivamente e il suo candidato, Ugo Piazzi, viene eletto per un solo voto su Vittorio Pozzar, candidato del gruppo Labor. Dura un anno e mezzo l’opposizione di Labor: a dicembre del ’61 viene eletto presidente, e comincia una nuova stagione per le Acli.

Da notare che al congresso di Milano, per la prima volta, la dialettica maggioranza/minoranza assume nelle Acli un carattere così forte ed esplicito. E’ una cartina al tornasole dell’indipendenza delle Acli, ma anche della loro capacità creativa, della loro energia democratica.

Un’altra sottolineatura riguarda il gruppo dirigente che affiancò Labor. Un nuovo gruppo dirigente cresciuto nelle scuole di formazione aclista, allenato nelle discussioni nelle sedi associative, sostenuto dalla ricchezza della stampa delle Acli e dagli elaborati dell’ufficio studi. Una grande macchina di produzione di idee, di ideali, che continuamente si immergeva e riemergeva nel lavoro quotidiano parlando di futuro. Geo Brenna (che abbiamo commemorato di recente) fu uno dei principali collaboratori di Labor.

Questo gruppo dirigente aveva una visione positiva della politica. Certamente un po’ ideologica, schematica, ma coraggiosa abbastanza per aprire e tentare strade nuove. L’analisi della realtà era in casa Acli molto più critica rispetto al main stream cattolico e democristiano: il capitalismo veniva sottoposto a contestazioni sempre più radicali, la speranza di un mondo più libero perché più giusto, si faceva sempre più coinvolgente. L’aria del Concilio spirava nelle Acli di Labor già prima che il Concilio fosse indetto.

Ma un paradosso su cui vorrei fermare ancora l’attenzione riguarda il confronto tra Penazzato e Labor. In fondo, Penazzato lasciò le Acli perché non riuscì a sostenere lo sbocco politico (di corrente, in quel caso) che aveva dato al movimento con la nascita di Rinnovamento democratico.

L’idea di autonomia nelle Acli prevalse. Eppure quel senso di politicità delle Acli viene non solo fatto proprio da Labor, ma rielaborato, esaltato, moltiplicato negli anni successivi. Fino a determinare – se vogliamo - un nuovo, assai più ambizioso e deflagrante sbocco politico.

Non è un caso che “Movimento operaio cristiano”, formula di Penazzato, diventa il nome della rivista dell’opposizione aclista, organizzata dal gruppo Labor tra il ’60 e il ’61.

Il cammino delle Acli negli anni Sessanta è per tanti aspetti vulcanico, come era vulcanico Livio Labor e come vulcanici erano quegli anni. Il sostegno elettorale alla Dc non venne meno fino al congresso di Torino del ‘69, fine proclamata dell’unità politica dei cattolici. Ma quello fu proprio il congresso in cui Labor lasciò per dedicarsi all’Acpol prima e al Mpl poi.

Le Acli si sentivano parte integrante del movimento dei lavoratori, parte attiva della sua avanzata, costruttrici insieme ad altri di un nuovo modello sociale che avrebbe dovuto prendere il posto di quello centrato sullo squilibrio sociale, sul diritto diseguale, sull’economia mal guidata, sull’egoismo dei ceti privilegiati.

E da credenti gli aclisti vedevano nel Concilio un grande evento liberatore. La fede incarnata nelle opere. Lo stare dalla parte dei lavoratori per avviare un rinnovamento sociale. Il camminare insieme con tutti coloro che cercano giustizia.

Gli anni Sessanta sono gli anni del primo centrosinistra. Una speranza attraversa pure le Acli. Che fanno propri i progetti di programmazione, le prime riforme, l’attuazione del dettato costituzionale nei diritti sociali. Ma il centrosinistra rende anche le Acli più esigenti, sempre più esigenti.

Su “Azione sociale” la polemica con la Confindustria e le forze padronali è costante. Si guarda il mondo con un nuovo spirito internazionalista. Anche l’azione dei governi italiani, passato il primo entusiasmo per la nuova formula politica, viene sottoposta a una progressiva analisi critica.

Mariano Rumor, segretario della Dc, viene fischiato dal congresso delle Acli del ‘66. La relazione di Labor insiste sulla “partecipazione democratica” come chiave di avanzamento sociale e condanna il modello “collettivistico” come quello “capitalistico” e quello “consumistico” perché tutti comprimono di fatto “la libertà delle persone”. In realtà viene demolita ogni ragione religiosa che giustifica l’unità politica dei cattolici, ma Labor trattiene ancora il fermento aclista e dice in congresso: “Ognuno resti al suo posto”, intendendo il posto nella Dc.

Le elezioni del 1968 sono le ultime in cui le Acli danno ufficialmente indicazione di voto per lo Scudo crociato. E sono anche le ultime elezioni che Labor vive da presidente delle Acli.

Ciò che accade nella società, ciò che accade nella politica (con la crisi del centrosinistra e il passaggio di Aldo Moro all’opposizione nella Dc), ciò che accade nelle Acli e nel sindacato (dove riacquista forza il tema dell’unità e una nuova generazione di dirigenti emerge nella Cisl), porta le Acli di Labor su una frontiera critica sempre più robusta e di sostanza.

E’ il momento della svolta politica di Livio Labor. L’Acpol (Associazione di cultura politica) nasce a Roma nel marzo del 1969, prima del congresso di Torino. Ne fanno parte la sinistra socialista di Riccardo Lombardi, interlocutore privilegiato di Labor, la sinistra sociale democristiana di Carlo Donat Cattin, più sindacalisti e personalità espressione di una sinistra italiana che si stava scoprendo plurale.

L’impasto politico-culturale è quello delle lotte operaie: la progettazione di un nuovo modello sociale che attraverso riforme di struttura riesca a garantire maggiori diritti, maggiori opportunità, maggiore democrazia, migliore sviluppo. C’è una battaglia immediata, per l’unità sindacale: più autonomia del sindacato per raggiungere più unità. Ma un sogno si delinea all’orizzonte: dare un volto nuovo al socialismo, senza più collettivismo, materialismo dialettico, tentazioni egemoniche.

Non è molto distante dall’impasto di Vallombrosa ’70. Labor comunque lascia la presidenza delle Acli al congresso di Torino per tenere distinte le Acli dall’Acpol. Lo spiegherà come un atto di fedeltà al principio di autonomia difeso per una vita. Anche se poi nei giudizi storici prevalenti ricadrà su di lui la “responsabilità politica” di aver condotto le Acli verso un’avventura fallimentare. 

Dall’Acpol nacque il Mpl, che si presentò alle elezioni del 1972 mancando il quorum. Il dato politico fu però conseguenza del disimpegno di quelli che erano stati i principali alleati di Labor. Riccardo Lombardi e la sinistra socialista rientrarono a pieno titolo nel Psi dopo la rottura del Psu e la fuoriuscita dei socialdemocratici. Donat Cattin tornò indietro dai propositi di scissione dopo che nella Dc venne ricomposta la gestione unitaria (e anche Moro abbandonò il campo della minoranza, dal quale aveva pronunciato il famoso discorso: “Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai…”)

Labor continuò la propria militanza politica nel Psi, del quale divenne senatore nella legislatura della solidarietà nazionale, in cui – tra l’altro – collaborò attivamente, insieme a Gozzini e La Valle, per dare alla legge 194 quel carattere iscritto nei primi due articoli.

Si potrebbe dire che Livio Labor è stato apripista di un ideale, poi rimasto incompiuto: il socialismo cattolico. Ma senza dubbio lui avrebbe contestato questa definizione. Perché non amava le etichette cattoliche in politica. E si è sempre ribellato all’interpretazione dell’Acpol e del Mpl come seconda forza cattolica. Voleva piuttosto contribuire all’ideale socialista, offrendo una strada inedita, più democratica non solo di quanto drammaticamente attuato nella dittatura sovietica, ma anche di quanto realizzato nelle socialdemocrazie europee. Più democratica perché più partecipata, più articolata nelle autonomie sociali, più capace di autogestione. Più democratica perché in grado di attivare uno Stato regolatore dei mercati, uno Stato programmatore senza essere dirigista.

Utopie, ci suggerisce il senno del poi. Certo, allora la politica conviveva con grandi ideali, con i sogni, e oggi di questo almeno sentiamo nostalgia. Perché senza speranze di vero cambiamento, il pragmatismo rischia di ridursi alla notte di Hegel in cui tutte le vacche sono nere.

La sua carica ideale Labor l’ha accumulata nelle Acli. E penso che costituisca l’eredità più preziosa che nessuna ricostruzione storica, anche la più severa verso quegli anni, può disconoscere. Si possono discutere e criticare tutti i passaggi decisivi di quegli anni – il congresso di Torino, il Mpl, il congresso di Cagliari – ma ci impoverirebbe tutti perdere la consapevolezza del grande patrimonio di valori che ci è stato consegnato.

Senza quel coraggio, senza quell’attitudine sociale, senza quella fiducia nel futuro, senza quella fedeltà al messaggio evangelico (radicalismo evangelico, diciamo oggi), credo che oggi non ci sarebbero le Acli. Le Acli si sono dovute emendare, è vero. Lo fanno tutte le realtà viventi camminando nella storia. Ma è la spinta ideale, la forza di andare controcorrente quando la coerenza lo impone, che fanno delle Acli qualcosa di più della loro stessa, generosa, multiforme struttura, qualcosa di più dei suoi preziosi servizi.

Il nome, anzi il cognome, di Livio Labor a me fa venir in mente il laburismo cristiano. Definizione un po’ indeterminata: non c’è mai stato nel Paese un movimento che facesse esplicito riferimento al laburismo cristiano. Però i laburisti cristiani ci sono stati. Non sono riconducibili a un unico filone politico. Ma ci sono stati, certamente. E Livio Labor è stato uno di questi. Uno dei maggiori.

Non credo che avrebbe rifiutato la definizione di laburista cristiano. La presenza dei credenti nella sinistra italiana ha avuto forme irregolari. Condizionate, non poteva essere altrimenti, dalla particolare conformazione della sinistra storica, con una prevalenza, fino alla caduta del Muro, di una presenza comunista molto strutturata e tuttavia molto originale nel panorama europeo e internazionale.

Tante personalità cattoliche hanno avuto un dialogo con il Pci molto più intenso di quanto non ebbero con il Psi, prima e dopo l’avvento di Bettino Craxi. E’ il frutto della nostra storia, e anche una ragione dell’evoluzione del comunismo italiano. Del resto, lo stesso Pci, quando la sua politica ha raggiunto l’apice del consenso, ha investito sulla ricostruzione dell’unità costituente, quindi sull’accordo con la Dc, trattenendo consapevolmente molti cattolici progressisti a sostegno di Moro e Zaccagnini.

Labor di questo atteggiamento ha sofferto. Si è sentito minoranza, e anche un po’ incompreso, stretto in una tenaglia tra i cattolici morotei che continuavano a lavorare alla ricomposizione dell’area cattolica e i cattolici che avevano lasciato la Dc per andare nel Pci di Berlinguer.

Le Acli stesse, con Rosati presidente, hanno costruito il loro rilancio sulla formula del “movimento della società civile per la riforma della politica”, convinti di contribuire così anche alla politica di solidarietà nazionale.

Ho sempre pensato che quel movimento della società civile per la riforma della politica, a cui contribuì una intensa stagione unitaria delle Acli (dopo il travaglio dei primi anni Settanta e la scissione del Mcl), possa essere considerato come una terza fondazione. Credo infatti che quel paradigma, al netto delle variazioni successive, resti ancora sostanzialmente valido per le Acli di oggi (dove dimensione e presenze sociali obiettivamente prevalgono sulla vecchia radice operaia).

Labor, credente fervente e appassionato, ebbe una sua visione della sinistra e fu capace di dialogo, allora, con tutte le sue componenti, vecchie e nuove. Il suo dialogo con la sinistra è stato un dialogo alla pari, di chi si sente corresponsabile di un percorso e vuole contribuire a plasmare un destino. Credo che questa sua tensione contenga elementi significativi di riflessione anche per l’oggi.

Prima e dopo di lui, l’evoluzione della sinistra è stata seguita dai vertici Acli con attenzione, talvolta con benevolenza, ma comunque come una questione altra da sé. Labor, più esplicitamente nella stagione dell’Acpol e del Mpl, si è battuto per una sinistra plurale. Plurale non soltanto perché capace di accogliere diverse matrici, ma anche per il modo di concepire l’evoluzione democratica. Per promuovere partecipazione e autogoverno e per scongiurare processi di verticalizzazione del potere, nelle istituzioni ma anche nella società e nell’economia.

Non tornano forse di attualità questi temi dopo un trentennio in cui il socialismo europeo è stato costretto a un confronto – perdente – con il liberalismo divenuto egemone nella forma di un liberismo pervasivo?

Senza l’apporto, anzi senza il contributo decisivo, del pensiero religioso, dell’ecologia integrale, della cultura della cura e del volontariato, del pensiero della differenza, non credo che la sinistra europea andrà molto lontano nell’accidentato contesto di questo nuovo secolo. La presenza dei cattolici nella sinistra c’è stata, c’è. Ha portato risultati. Ma resta una sfida aperta. Ricordiamo Jacques Delors, Romano Prodi, David Sassoli. Mi viene da pensare che, per complicate vie, siano un po’ anche loro figli o nipoti di Livio Labor.

Livio Labor tra due decenni burrascosi https://pop.acli.it/images/LABOR/Foto_Sardo.jpg Redazione POP.ACLI