In Italia serve una virata su più fronti: lavoro, contratti, salari e scuola...

Il Paese delle eccellenze e delle emergenze: un’economia virtuosa e di eccellenza, fatta di partecipazione dei lavoratori, contratti stabili, conciliazione, formazione, qualità e innovazione, vive dentro un Paese che prevalentemente negli ultimi 20-30 anni ha scelto la logica del “lavorare peggio, pur di lavorare”, di tenere l’occupazione, di fatto scaricando i problemi sul futuro e il futuro adesso è qui.

L’Italia è l’unico Paese UE che, in trent’anni, ha visto abbassarsi il salario medio e dove oltre 1/4 dei lavoratori, e quasi il 40% delle lavoratrici tra i 30 e 40 anni, hanno redditi da poveri o sono a rischio di povertà (indagine Acli e IREF), peggio se straniere.

L’impoverimento, non solo materiale, del lavoro narra di lavoro nero o grigio, di mancanza di rinnovi contrattuali, di moltiplicarsi di contratti collettivi pirata, di presenza di tanto part time involontario, di un diffuso ricorso, anche pubblico, al lavoro deprezzato, al “massimo ribasso”, di deboli tutele per forme nuove di lavoro, di grandi gruppi che obbligano al lavoro sottocosto tante piccole imprese. Ne consegue oggi un Paese con meno risorse pubbliche e con un’economia spesso trasandata e che certo non compete sul merito, ma sulla furbizia e le protezioni.

Serve una virata su più fronti:

- il creare lavoro, ovvero, darsi uno sviluppo, di pace e non di traffico di armi, centrato sulla sobrietà, sul non sprecare, sul prendersi cura, e meno sul consumismo, su una politica industriale, guardando a Next Generation EU, ma anche al piano europeo per l’Economia sociale;

- l’accompagnare al lavoro, ovvero politiche attive, formazione professionale e permanente, inclusione;

- la dignità del lavoro ovvero diritti, salute, sicurezza, parità di genere, due diligence europea che vincoli le aziende al rispetto di diritti e ambiente nelle proprie catene di fornitura (non era obbligatorio fare i mondiali in Qatar!), una giusta distribuzione della ricchezza generata, grande assente.

L’Europa ha finalmente il pilastro dei diritti sociali, che chiede a ogni Paese, insieme al reddito minimo, il salario minimo, ma non solo. Urge subito una risposta (documento più ampio) fatta di:

1. un nuovo, più forte e diffuso sistema di controlli

2. un indicatore che, sotto la guida dell’Istat, misuri un’esistenza libera e dignitosa e la retribuzione conseguente;

3. solo contratti solidi, attuando l’articolo 39 della Costituzione che prevede che i contratti collettivi possano avere efficacia obbligatoria per tutte le aziende di ogni categoria. Per farlo si devono rendere vincolanti in ogni settore i contratti collettivi maggiormente rappresentativi. E nell’attesa che ciò avvenga, per i settori specifici più a rischio trovare una soluzione – sperimentale e temporanea – che fissi una soglia legale minima oraria di garanzia con riferimento ai contratti collettivi nazionali migliori;

4. premiare anche fiscalmente le aziende che cercano di essere virtuose, dandosi una logica migliorativa dei contratti, investendo in conciliazione, formazione permanente, partecipazione dei lavoratori;

5. responsabilità solidale più forte e anche nell’indotto della Pubblica Amministrazione: il principio per cui il committente è obbligato in solido con l’appaltatore e con i subappaltatori al rispetto dei contratti di lavoro va rafforzato ed esteso al pubblico;

6. una soglia del Guadagno Massimo Consentito. Tante aziende stesse da che cosa sono impoverite? In parte dall’eccessivo arricchirsi di pochissimi. Se un bar vende un panino a un turista 10 volte il suo prezzo, giustamente, ci si scandalizza; se un manager gode di una buona uscita 10.000 volte quella di un lavoratore non altrettanto. In questi eccessi cresce l’inflazione, non solo dell’energia;

7. adeguamento automatico dei salari all’inflazione se non si rinnovano da tempo i contratti;

8. fare sistema pubblico sulle politiche attive dentro delle “case del lavoro”: lascia perplessi che in un Paese dove un freno forte allo sviluppo viene (oltre che da tanta burocrazia ed eccesso di norme) da servizi e infrastrutture spesso carenti ed esose, affidate profittevolmente a tanto privato profit, un mondo non profit competente e con esperienza non possa essere misurato, dentro una coprogrammazione pubblica, senza sconti, sul gestire o cogestire forme innovative di centri per l’impiego;

9. un piano nazionale per l’occupazione femminile, ancora ferma al 51%, come ricordato con l’indagine fatta col Coordinamento Donne “Lavorare dispari”;

10. un’altra scuola è indispensabile e possibile

Alla Scuola, valorizzando chi vi opera, non serve l’ennesima riforma, ma quasi una rivoluzione dal basso, partendo dalle energie e progettualità già esistenti. Il mandato solo “istruttivo” non risponde all’attualità. Se si rilegge “Lettera a una professoressa di don Milani” la si trova, dopo oltre mezzo secolo, ancora drammaticamente attuale: si pensi al fatto che dopo due anni di pandemia e 1 giovane su 8 con disagio psicologico, la scorsa primavera molte classi non hanno potuto fare la gita per indisponibilità di personale, peggio, alla rarità del tempo pieno, alle classi pollaio o a un’alternanza scuola lavoro non personalizzata.

La normalità della secondaria è centrata quasi esclusivamente su lezioni frontali, e non su un’attenzione educativa specifica per ogni studente e sul cooperare.

Si inscrive qui anche la necessità di collocare l’esperienza di tanti enti non profit della formazione professionale dentro il sistema di istruzione, riscattandola da una logica spesso solo emergenziale, e non permanente, e da una presenza diffusa solo al nord. Chi apprende un mestiere non è un fallito recuperato, come insegna tanto prestigioso Made in Italy.

La Costituzione dà del lavoro una definizione alta e positiva: impone di garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa e vi àncora il progresso autentico delle persone e del pianeta. Va applicata, specie nei tanti punti scomodi.

Dignità al lavoro, futuro al pianeta https://pop.acli.it/images/salario_minimo.jpg Redazione POP.ACLI