Se questo mettersi insieme è così tanto buono e bello, fa così bene al paese e alla democrazia, allora perché non siamo tutti lì a farlo?
A fine marzo si è riunito il nuovo comitato scientifico dell’Iref per una due giorni di studio e discussione presso l’Università del Molise. Hanno accettato il nostro invito più di venti studiosi provenienti dalle maggiori università italiane. Il tema al centro del confronto è stata la partecipazione sociale.
In modo più o meno esplicito tutti hanno cercato di dare una risposta al “paradosso della partecipazione”. La partecipazione associativa e sociale è un aspetto centrale della modernità: cantiamo in una corale, giochiamo a calcio in un club amatoriale, ci incontriamo per discutere le finezze di una certa forma di yoga, impariamo una lingua insieme ad altre persone che non la conoscono, aiutiamo i ragazzi più giovani a imparare delle cose, facciamo delle grandi manifestazioni contro l'inquinamento dell'acqua, diamo vita a delle mense popolari, facciamo tantissime cose gratuitamente per rilanciare la vita economica e l'attività dei nostri paesi.
In poche parole, ci mettiamo insieme, ci emozioniamo insieme. A queste cose il mondo della politica e gli intellettuali hanno guardato con fascinazione e grande interesse. [...] Siccome la partecipazione produce e performa molte cose buone, l'abbiamo considerata come produttiva di amicizia, di legami, di opportunità. Abbiamo pensato che potesse servire ad apprendere delle competenze e quindi ad entrare meglio nel mercato del lavoro; abbiamo pensato che servisse a stabilire delle relazioni e farsi aiutare quando c'è bisogno nei momenti più duri e asfissianti della vita; abbiamo addirittura pensato che potesse servire a imparare quelle regole che ci permettono di votare a maggioranza e fare democrazia [...].
Guardando solo alle funzioni ci siamo sbagliati. La tendenza di fondo della modernità è la riduzione dei tassi di partecipazione. Abbiamo costruito una narrazione su tutte le cose bellissime che l'associazionismo fa, ma non siamo stati capaci di spiegare perché dalle nostre parti le persone che si associano sono circa nove su cento; perché in Italia tutto compreso siamo da anni in decrescita della partecipazione, anche se la misuriamo considerando anche le forme nuove: compresa la partecipazione online le persone che si impegnano sono solo una su sei.
Se questo mettersi insieme è così tanto buono e bello, fa così bene al paese e alla democrazia, allora perché non siamo tutti lì a farlo? E perché in alcuni posti si fa di più e in altri posti si fa di meno? Perché alcune persone lo fanno di più e altre le fanno di meno? Perché alcune organizzazioni hanno tante persone e altre poche? (Tommaso Vitale, Dean Urban School Sciences Po Paris, Presidente Comitato scientifico Iref, Campobasso, Università del Molise, 24 marzo 2023)
Chi lavora, si impegna e vive nel “sociale” finisce quasi sempre per considerare la sua bolla esistenziale come rappresentativa della società per com’è o per come dovrebbe essere. In realtà il civismo è una componente minoritaria delle società contemporanee: partecipiamo sempre di meno, partecipiamo sempre in meno. Eppure, senza il “sociale” le città e i paesi, le scuole e i luoghi di lavoro sarebbero luoghi peggiori; i poveri, i malati, gli immigrati avrebbero vite più difficili e dolorose; noi stessi avremmo esistenze meno piene.
Il paradosso è evidente, c’è però un altro problema: siamo ben lontani dall’aver capito come uscirne. Tommaso Vitale nel suo intervento di apertura alla giornata di studi “Partecipazione sociale: problemi e prospettive” ci ha lanciato questa sfida: vogliamo continuare a decantare le virtù civiche degli italiani (pochi) che si impegnano? O vogliamo (finalmente) provare a capire le interazioni, positive e negative, tra l’Italia civile e il resto del Paese?
Seguendo l’evoluzione della società civile italiana sin dagli albori siamo consapevoli che gli schemi interpretativi passati funzionano sempre meno. Nel 2023, grazie al supporto di Fondazione Cariplo e Acli aps, abbiamo la possibilità di provare a fare un passo avanti con la decima edizione del Rapporto sull’associazionismo sociale (RAS10): tenteremo di iniziare a smontare il paradosso della partecipazione.
Dalla due giorni di Campobasso ci portiamo dietro diverse idee e ipotesi di lavoro che cercheremo di verificare sul campo assieme ai colleghi che stiamo coinvolgendo nel percorso di ricerca. Ovviamente si tratta prevalentemente di domande.
La prima è ineludibile: in che modo la recente crisi sanitaria ha influenzato gli schemi partecipativi degli italiani? Ci ricordiamo di quando, affacciati al balcone, pensavamo che ne saremmo usciti assieme? E poi quale ruolo ha il digitale? Sino a che punto potenzia la partecipazione sociale? E con quali conseguenze? Poi c’è da mettere in discussione l’idea che i giovani non partecipino, che vivano dentro reti sociali allo stesso tempo cortissime e lunghissime.
Un’altra grande questione riguarda il determinismo con il quale teniamo assieme ambito di intervento sociale e valori, comportamenti, atteggiamenti delle persone: se serviamo i pasti in una mensa per i poveri, pensiamo, parliamo e agiamo tutti allo stesso modo?
Infine c’è forse la domanda più grande, banale e complessa allo stesso tempo, una domanda alla quale abbiamo cercato di rispondere sin dalla scelta di accettare l’invito dell’Università del Molise. Che forme assume la partecipazione sociale nelle aree periferiche dell’Italia? Non è che per decenni abbiamo avuto un bias metropolitano per il quale il civismo si esplica compiutamente solo nelle città? E se ci fossimo persi per strada un piccolo-grande pezzo di società civile
[Cristiano Caltabiano, Cecilia Ficcadenti, Gianfranco Zucca]