Il nostro rapporto con le nuove tecnologie e come viviamo la nuova rivoluzione tecnologica...

Un piccolo libretto che pone domande intriganti e per nulla scontate, che invita alla riflessione sul nostro rapporto con le nuove tecnologie e che ci mostra come noi siamo esseri tecnologici fin dall’antichità. Duque il problema non è se le nuove tecnologie sono bene o male, ma come noi viviamo questa ennesima rivoluzione tecnologica che ci plasma, così come è stato in passato.

«A un certo punto, Francesco, per guardare meglio, aveva allungato pollice e indice uniti sulla figura, li aveva appoggiati sulla pagina e separati come si fa per ingrandire le immagini sullo schermo di uno smartphone o di un pad. Dopo aver ripetuto il gesto senza alcun esito, mi si era rivolto deluso, infastidito e frustrato. Aveva detto Zia, il libro non funziona […] Mio nipote è nato in un mondo in cui la tecnologia è sufficientemente potente da mimare la realtà e dunque Francesco confonde i fatti con le rappresentazioni, di più, le ritiene sovrapponibili, ancora di più, si irrita perché la tecnologia offre maggiori comodità, tra cui la ripetizione. Non lo fa solo lui, lo facciamo quasi tutti.».

Ecco, dunque, le domande di oggi: «Le domande si ripetono ma le risposte cambiano. Dove siamo oggi con le domande su tecnologia, vita, limiti del corpo, anima supposta immortale, dunque desideri, intenzioni e tutto il resto? È vivo un essere umano la cui respirazione e alimentazione dipendono da macchinari elettrici?, è ancora persona? È in vita un ovulo fecondato e conservato a molti gradi sotto zero in un laboratorio?, è già persona?».

Platone ha cambiato la concezione degli dei passando da quelli descritti da Omero, molto umani, al dio impersonale della metafisica. Si ha qui un passaggio che viene alla fine codificato da Cartesio con la distinzione tra res cogitans e res extensa, tra mente e corpo, diremmo oggi.

L’autrice propone un teorema che nasce dalla esperienza infantile: «Il teorema del peluche, anche se così è troppo generico perché nessuno chiama peluche il peluche ma gli dà un nome – monito questo a non essere mai generici e astratti nelle faccende sentimentali e logiche –, dovrebbe avere per enunciato: È vivo ciò che ci sembra vivo o anche, in una formulazione più ampia: È vivo tutto ciò che suscita in noi sentimenti di amore, consolazione, disapprovazione, odio (aggiungete a piacere) e relativi movimenti del corpo più o meno percettibili. È vivo ciò che ci sommuove, commuove, turba e perturba, ci sposta o devia dallo stato in cui siamo».

Andando poi a scuola e diventando grandi cominciamo a entrare: «in una nuova era dove è necessario avere e pretendere esattezza organica e metodologica. In questa nuova fase educativa, impariamo che esistono mondi animati e no, e ci ripetiamo che la sostanza di cui sono fatti gli animali umani – specie alla quale apparteniamo – è differente dal resto. Cominciamo ad apprendere e partecipare di un principio sociale che è economico ed è stato sistematizzato dal capitalismo. Impariamo, cioè, che esistono gradazioni di vita, impariamo a riconoscerle e stabilirle». Ci ritroviamo così circondati da cose morte, perché non suscitano emozioni.

Come riuscire allora a ritrovare quel senso della vita che abbiamo sperimentato da bambini? «Consci, nonostante l’esser diventati adulti (e l’aver perso l’abilità dimostrativa), della validità del teorema del peluche, ci domandiamo malinconicamente se esiste qualcosa che ci permette di continuare a essere circondati dalla vita e a parteciparne. Io penso di sì, e come altri, ritengo che questa cosa che anima sia il linguaggio. Motivo per cui quando leggiamo: In principio era il verbo e il verbo era presso Dio, ci crediamo. Crediamo, cioè, che le parole animino, e questo è l’atto di fede che compiamo ogni giorno, qualunque sia il linguaggio che impariamo e qualunque sia la fede. Da qualche decennio il linguaggio alberga pure presso le macchine, dunque, come abbiamo imparato le preghiere e i riti, è utile che impariamo i codici. Dove c’è linguaggio, c’è vita. Facciamo vivere le cose raccontandole, possiamo ucciderle tacendole. Non mi riferisco a oscure pratiche magiche ma alla presenza del rito nelle nostre giornate. Riti di vario genere, religiosi o laici, abitudini o ossessioni talvolta […] Così, il linguaggio con la sua grammatica – forma persistente di rito –, che toglie e dà esistenza, ci ha insegnato che vivere è biologico quanto culturale».

Le nuove tecnologie, che sono il simbolo della nostra cultura, portano con sé la distrazione e la sottovalutazione del presente, due condizioni che ci accompagnano nella vita quotidiana e non solo nel lavoro. E’ una mutazione della nostra natura umana, che non è necessario accettare senza condizioni, ma si può ragionevolmente contenere, cioè: non eliminare del tutto, perché non è possibile, ma anche averne una maggiore consapevolezza e pertanto agire con più coscienza di ciò che si sta facendo.

Lo studio aiuta ad avere maggiore consapevolezza: «Studiare aiuta a fare distinzioni nelle cose invisibili, a non confondere l’intervento divino o magico con l’avanzamento tecnologico. Studiare scienze, più specificamente, consente di non percepire la tecnologia come fenomeno magico o religioso, ma come risultante di un avanzamento di umane umanissime conoscenze affette da errore e passibili di evoluzione e miglioramento. Studiare scienze aiuta ad accettare che l’oltremondo è in questo mondo, ma a un ordine di grandezza – segnali elettrici, impulsi elettromagnetici e galassie – che non percepiamo con i nostri sensi».

La ministra dell’istruzione Falcucci aveva introdotto la programmazione nella scuola. La ministra Moratti ha introdotto l’apprendimento di un pacchetto applicativo.

Per l’autrice questo è stato un passo indietro nella scuola perché: «La riforma Falcucci e quella Moratti sono antipodali rispetto all’idea di istruzione e, in fondo, anche a quella di cultura. Nella proposta Falcucci, la teoria e la prassi dell’informatica si compenetrano e si rafforzano. A scuola si impara cioè che teoria e prassi non hanno differente natura e, dal punto di vista culturale, il principio che passa è che alla cultura si partecipa. La cultura non è intoccabile, altra e irraggiungibile, la cultura è fatta da chi e con chi vi partecipa. La scienza stessa è cultura, e dobbiamo lavorare perché questa coscienza la abbiano tutti. Gli studi scientifici hanno sbocchi tecnologici, l’avanzamento tecnologico richiede studi scientifici, e si impara dunque, giorno per giorno, che la tecnologia non coincide con i dispositivi.

L’indirizzo della riforma Moratti è diverso, l’effetto è quello dei signori viaggiatori divenuti gentili clienti negli annunci sonori sui treni. Il fine appare non tanto la comprensione e il contributo del singolo, ma il completamento di un percorso volto a ottenere un titolo, un marchio, un bollino (torniamo al discorso sulle merci). Partecipare o ricevere, pensare di poter contribuire o non pensarci affatto. Giocare o eseguire. Esercitarsi a capire o trovare la soluzione. Cercare la soluzione o avere ragione. Esseri umani considerati viventi o merci non viventi. Ha vinto la riforma Moratti».

Spero di aver dato sufficienti esempi di come Chiara Valerio vuole aiutarci a non essere fruitori passivi, ma attivi critici dell’uso delle nuove tecnologie e di quanto esse possano cambiare il nostro modo di stare la mondo.

Molto altro contiene questo piacevole e stuzzicante pamphlet, come l’altro intrigante fin dal titolo “La matematica è politica” pubblicato sempre con Einaudi nel 2020, con questa frase in copertina: La matematica è stata il mio apprendistato alla rivoluzione, perché mi ha insegnato a diffidare di verità assolute e autorità indiscutibili. Democrazia e matematica, da un punto di vista politico, si somigliano: come tutti i processi creativi non sopportano di non cambiare mai.

Buona lettura.

Chiara Valerio, La tecnologia è religione, Einaudi, Torino 2023, euro 13,00, pagine 128

La tecnologia è religione https://pop.acli.it/images/Tecnologia_religione_Volpato.jpg Redazione POP.ACLI