Siamo ad Amman dove si svolge una storia agro-dolce di emancipazione di una donna giordana...

Una storia agro-dolce di emancipazione di una donna giordana, un film coraggioso che suscita speranza per un diverso rapporto tra uomo e donna in una società segnata dalla legislazione musulmana.

Siamo ad Amman, capitale della Giordania, e Nawal – moglie e madre di una bambina piccola, Nora – si trova vedova per la morte improvvisa e inaspettata del marito. Più volte nel film la protagonista dice: “non so come comportarmi”. Si trova a dover gestire le questioni legali dell’eredità, dei piccoli debiti lasciati dal marito e del non riconoscimento legale della sua partecipazione all’acquisto della casa in cui vive. Se avesse un figlio maschio non ci sarebbero problemi, ma la tutela sua e della figlia sono a carico del cognato, secondo la legge in vigore in Giordania, non del fratello. 

Sono interessanti la descrizione di due momenti di confronto con il cognato di fronte a un giudice, molto diversi da quanto vediamo nei film o telefilm americani o europei. 
La donna resiste alle richieste economiche del cognato, a sua volta pressato da debiti, e rifiuta la soluzione più semplice di vendere il pick-up del marito per estinguere il debito. Lei non ha la patente, ma non vuole rinunciare a questo piccolo bene. 

Nawal lavora presso una famiglia benestante maronita e cristiana, dove anche qui esistono regole non scritte di sottomissione della donna al marito. Si occupa della nonna allettata con un fisioterapista che le fa la corte e vuole aiutarla, ma anche questo non è permesso a causa del suo lutto. Inoltre, entra in confidenza con la figlia che si vuole emancipare, che rimane incinta e che Nawal fa abortire clandestinamente. Per questo perde il lavoro e viene cacciata in malo modo dalla madre. 

Il regista intreccia relazioni quotidiane, partendo da una storia vera accaduta a una sua parente. Riesce così a descrivere i piccoli passi di emancipazione di Nawal che rinuncia alle scelte apparentemente più ragionevoli pur di mantenere la propria indipendenza. 
Per questo dice davanti a un giudice che lei aspetta un figlio dal marito morto che le accorda del tempo per dilazionare il pagamento del debito con il cognato. Acquista così del tempo fino a quando viene obbligata a fare un test di gravidanza per verificare le sue parole. 

Inshallah vuol dire: “Se Dio vuole”, o anche si potrebbe tradurre anche con: “per grazia di Dio”. Da qui il titolo del film: “Se Dio vuole un figlio”, oppure: “Per grazia di Dio un figlio”.

Non svelo il finale doppio a sorpresa, così da andarlo a vedere per sapere come finisce. 
Alla fine del film, due signore anziane accanto a me si sono scusate per aver commentato tutto il tempo, indignate per la condizione della donna raccontata con finezza dal regista, coadiuvato da due donne nella scrittura della sceneggiatura. Una signora più giovane, sentendo il nostro dialogo ha commentato: “certo che però, anche da noi, non è tanto diverso”.

Se pensiamo alle morti di femminicidio e alla cultura che ne sta alla base molto diffusa, anche tra i giovani, possiamo pensare che, nonostante il nostro diritto sia più paritario di quello in vigore in Giordania, la cultura maschilista e patriarcale ancora è molto diffusa. 

Questo film ci aiuta a prenderne coscienza e a lavorare nel nostro quotidiano per una maggiore attenzione alla dignità delle donne, così anche gli uomini saranno capaci di più dignità nei propri confronti, per diventare uomini e donne migliori, capaci di relazioni rispettose l’uno dell’altra.

Inshallah a boy https://pop.acli.it/images/APRILE/inshallah.jpg Redazione POP.ACLI