A giudicare da quanto ci ha lasciato, sembra lunga la vita di don Lorenzo, morto a 44 anni, che considerò “passati nelle tenebre” i primi 20 anni della sua vita, quelli prima di entrare in Seminario…

«Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole...».

Così scrive papa Francesco il 20 giugno 2017, nel discorso tenuto sulla tomba di don Milani. Un appuntamento fortemente voluto, che sembra quasi avere un intento “risarcitorio”, non tanto o non solo verso la persona, quanto verso la verità: «… Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato…». Dal Card. Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: “Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio…».

Di don Milani conosciamo l’impegno per la “sua” scuola, quella di Barbiana, per i piccoli e le piccole studenti, per la loro libertà vera («La scuola, per don Lorenzo, - scrive ancora papa Francesco - non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione»). Ma, naturalmente, non fu solo quello “il modo concreto con cui svolgere la sua missione”.
Nel febbraio 1965, già da 5 anni sofferente per il male che lo aveva colpito, don Milani scrisse una lettera aperta ad un gruppo di cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”. La lettera costò a lui un rinvio a giudizio per apologia di reato e a Luca Pavolini, che la pubblicò su “Rinascita”, l’accusa di incitamento alla diserzione e vilipendio alle Forze armate.

Di quella lettera, riportiamo di seguito alcuni stralci, ancora – purtroppo – molto attuali, in questi tempi di guerra.
«Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione...
È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione. Articolo 11 "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...". Articolo 52 "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino". Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia. Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?
Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l'esecuzione sommaria dei partigiani, l'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?».

L'obbedienza non è più una virtù è il libro che raccoglie i testi fondamentali della vicenda processuale.
Don Milani rischiava una condanna da tre a dieci anni. Già molto malato, non poté presenziare al processo. Nella memoria consegnata ai giudici affermò che quando le leggi non sono giuste bisogna battersi per cambiarle e che intervenire quando non si rispettano i principi di giustizia, di libertà e di verità è dovere di ognuno.
Come affermò l’avvocato Adolfo Gatti, nell’arringa di difesa di don Milani, «Qui non si sta dibattendo di una apologia di reato relativa a una rapina, a un furto con effrazione, ma relativa ad argomenti più nobili e più profondi. Affrontiamo dunque la realtà: siamo di fronte al più grave tra i problemi che occupano la coscienza del nostro paese. Parlando di obiezione di coscienza non commettiamo un crimine. Assistiamo solo all'intervento di cittadini e di religiosi su questo tema appassionante e difficile. Un intervento che rappresenta il diritto di dibattere un'idea e indagare in un campo morale delicato, quello delle scelte e delle libere valutazioni, un campo dove, come ci avverte don Milani, l'obbedienza non è sempre una virtù, ma può diventare la più subdola delle tentazioni, pretesto di conformismi vili, tanto più gravi in quanto ammantati di legalità».
Il primo processo a don Milani e al giornalista Pavolini si concluse il 15 febbraio 1966 con la richiesta da parte del pubblico ministero di otto mesi di reclusione per don Milani e otto mesi e mezzo per Pavolini. I giudici optarono invece per l’assoluzione, ma il pubblico ministero ricorse subito in appello. Il processo di secondo grado si svolse il 28 ottobre 1967 e don Milani, morto il 26 giugno, fu condannato con la formula “reato estinto per la morte del reo”...


Vedi anche (sito POP):

Idee a confronto

27 maggio 1923. Nasce don Lorenzo Milani

Mi interessa!

26 giugno 1967. Muore don Milani. Disobbediente alla luce del Vangelo e della Costituzione https://pop.acli.it/images/GIUGNO/Don_Milani_ACLI_R.jpg Redazione POP.ACLI